La via verso le idi di marzo

Il 14 febbraio del 44 a.C. Cesare aveva ottenuto il titolo di dittatore a vita. Il giorno seguente, durante la festa dei Lupercali, i Cesaricidi avevano tentato di far uscire Cesare allo scoperto offrendogli la corona, ma egli aveva rifiutato; dopo due rifiuti (prima ci aveva provato Licinio e poi Cassio, assassino di Cesare) Marco Antonio, che guidava la processione, vide la corona e la offrì per la terza volta a Cesare, che sedeva sui rostri.

Alcuni lo invocavano come rex, soprattutto coloro i quali si trovano più vicini, mentre i più lontani rumoreggiavano. Per i Romani però, nonostante fossero passati quasi cinque secoli dalla cacciata di Tarquinio il Superbo, la regalità era ancora un tabù.

Quest’ultima volta Cesare diede ordine che la corona, che precedentemente aveva gettato tra la folla, venisse portata nel tempio sul Campidoglio di Giove Ottimo Massimo, poiché la corona apparteneva solo a lui, unico re di Roma. L’avvenimento è raccontato da Nicola Damasceno (Vita Caes., 21, 71-75):

«71. Nell’inverno si celebrava a Roma una festa (chiamata i Lupercali), durante la quale vecchi e giovani insieme partecipavano a una processione, nudi, unti e cinti, schernendo quanti incontravano e battendoli con strisce di pelle di capra. […] era stato eletto a guidare la processione Antonio; egli attraversava il foro, secondo il vecchio costume, seguito da molta gente. Cesare era seduto sui cosiddetti rostri, su un trono d’oro, avvolto in un mantello di porpora. Dapprima lo avvicinò Licinio con una corona d’alloro […] Dato che il posto da cui Cesare parlava al popolo era in alto, Licinio, sollevato dai colleghi, depose il diadema ai piedi di Cesare.
72. Il popolo gridava di porlo sul capo e invitò il magister equitum, Lepido, a farlo, ma questi esitava. In quel momento Cassio Longino, uno dei congiurati, come se fosse veramente benevolo e anche per poter meglio dissimulare le sue malvagie intenzioni, lo prevenne prendendo il diadema e ponendoglielo sulle ginocchia. Con lui anche Publio Casca. Al gesto di rifiuto da parte di Cesare e alle grida del popolo accorse Antonio, nudo, unto d’olio, proprio come si usava durante la processione e glielo depose sul capo. Ma Cesare se lo tolse e lo gettò in mezzo alla folla. Quelli che erano distanti applaudirono questo gesto, quelli che erano vicini invece gridavano che lo accettasse e non rifiutasse il favore del popolo.
73. Su questa vicenda si sentivano opinioni discordanti: alcuni erano sdegnati poiché, secondo loro, si trattava dell’esibizione di un potere che superava i limiti richiesti dalla democrazia; altri lo sostenevano credendo di fargli cosa gradita. Altri ancora spargevano la voce che Antonio avesse agito non senza il suo consenso. Molti avrebbero voluto che diventasse re senza discussioni. Voci di ogni genere circolavano tra la massa. Quando Antonio gli mise il diadema sul capo per la seconda volta, il popolo gridò nella sua lingua: “Salve, re!”. Egli non accettò nemmeno allora e ordinò di portare il diadema nel tempio di Giove Capitolino, al quale, disse, più conveniva. Di nuovo applaudirono gli stessi che prima avevano applaudito.
74. C’è anche un’altra versione: Antonio avrebbe agito così con Cesare volendo ingraziarselo, anzi con l’ultima speranza di essere adottato da lui.
75. Alla fine abbracciò Cesare e passò la corona ad alcuni dei presenti, perché la ponessero sul capo della vicina statua di Cesare. Così fu fatto. In un tale clima, dunque, anche questo evento non meno di altri avvenimenti contribuì a stimolare i congiurati ad un’azione più rapida; esso infatti aveva dato una prova più concreta di quanto sospettavano.»

Nicola Damasceno (Vita Caes., 21, 71-75)

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Una repubblica morta?

Quel che è certo è che Cesare ritenesse la repubblica superata, secondo quanto riporta Svetonio (Svet., Caes. 77, 2): “nihil esse rem publicam, appellationem modo sine corpore ac specie” – “la repubblica non è nient’altro che un nome senza corpo né anima”. Di fatto, grazie alla dittatura a vita e all’adozione di Ottavio tramite testamento Cesare aveva già istituito una monarchia, anche se molti non se n’erano resi conto. Alcuni atteggiamenti di Cesare erano ritenuti dai senatori come eversivi; essi però non avevano ancora compreso, o voluto comprendere, che Cesare controllava la repubblica:

«Ma il massimo odio, un odio mortale, se lo attirò soprattutto con questo fatto: quando vennero da lui tutti insieme i senatori con una lunga serie di decreti che gli conferivano altissimi onori, li ricevette, dinanzi al tempio di Venere Genitrice, stando seduto. C’è chi ritiene che fu trattenuto da Cornelio Balbo, mentre lui stava alzandosi; altri dicono che non fece nemmeno il gesto di alzarsi, anzi, guardò con volto poco amichevole Gaio Trebazio che lo esortava ad alzarsi. E questo suo comportamento apparve tanto più intollerabile perché in precedenza, mentre egli passava sul carro trionfale davanti ai seggi dei tribuni della plebe, il solo Ponzio Aquila, di tutto quel collegio, non si era alzato in piedi, e lui se n’era tanto indignato, che aveva gridato: «Richiedimi dunque la repubblica, tribuno Aquila!»; e per parecchi giorni non smise di promettere ad alcuno alcuna cosa senza questa riserva: «Sempre che Ponzio Aquila sia d’accordo».»

Svet., Caes. 77, 2

D’altra parte lo stesso Cicerone, avversario di Cesare, rifletteva che: “Se si deve violare il diritto, bisogna violarlo per il potere assoluto; per il resto coltiva la pietà” (Cic., De off. III, 82). Chi, meglio di Cesare, poteva creare un regno di fatto? Il dittatore si era reso conto che per governare la res publica non erano più sufficienti magistrature elettive, i cui candidati spesso erano in aspra competizione e dalla durata spesso annuale: erano necessarie cariche sempre più specializzate e burocratiche.

Testamento e funerale

Gli eventi dopo le idi di marzo

Cesare venne dunque assassinato alle idi di marzo del 44 a.C. Poche ore dopo i Cesaricidi si recarono ai rostri scortati da gladiatori di Decimo Bruto e spiegarono le loro ragioni al popolo, che però reagì freddamente: il discorso intriso di violenti accuse verso Cesare da parte di Lucio Cornelio Cinna (figlio del console ucciso dai sillani nell’84 a.C. e fratello di Cornelia, seconda moglie di Cesare, era inoltre marito di Pompea, figlia di Pompeo), che non aveva partecipato direttamente all’omicidio del dittatore, ma si era subito dopo unito ai Cesaricidi, fu accolto negativamente dalla plebe, che costrinse i Cesaricidi a fuggire.

Nel caos che imperversava per Roma, Cicerone propose di far convocare immediatamente da parte di Bruto e Cassio il senato in qualità di pretori in carica per ratificare il ripristino della legalità repubblicana, ma Bruto non ne ebbe il coraggio e avviò una trattativa con Antonio e Lepido. Marco Antonio, console in carica, convinse Lepido, ormai ex magister equitum, che disponeva di alcuni soldati sull’Isola Tiberina, a non attaccare di notte i Cesaricidi e perpetrare una strage, forse temendo che Lepido avrebbe accolto l’eredità cesariana al suo posto (Nic. Dam. FGH 2, 90 fr. 130, XXVII, 101-102; App. Bell. Civ. II, 124, 518-520; II, 125, 522).

Antonio ottenne che i soldati di Cesare prendessero il controllo della città senza spargimenti di sangue e convocò il senato il giorno seguente; per ereditare il potere di Cesare ed evitare una nuova guerra civile Antonio doveva venire a patti con i Cesaricidi e ottenere l’appoggio dei Cesariani come nuovo leader: Lepido ottenne la carica di pontefice massimo, mentre Dolabella ebbe la conferma del consolato. Successivamente Antonio concordò con Cicerone un compromesso per ciò che riguardava la questione dei Cesaricidi: Antonio sottrasse settecento milioni di sesterzi depositati da Cesare nel tempio di Opi, divinità dell’abbondanza, situato sul Campidoglio e si fece dare da Calpurnia, moglie di Cesare, i documenti di quest’ultimo e cento milioni di sesterzi appartenenti al suo fondo privato.

Cicerone, che era passato nel giro di poche ore dallo scrivere all’amico Attico che “il tiranno è ucciso e noi non siamo liberi” (Cic., Att. 14, 11, 4, 5.12), si trovava costretto a negoziare la salvezza dei Cesaricidi con Antonio, suo acerrimo nemico, che otto anni prima lo aveva accusato di essere la mano di Milone contro l’ex tribuno Publio Clodio Pulcro. Il punto della discussione era il seguente: se Cesare era un tiranno i suoi atti andavano aboliti, altrimenti sarebbero stati confermati e avrebbe ottenuto un funerale di stato.

Il testamento di Cesare

Il 17 marzo il senato si riunì nel tempio di Tellus; Bruto e Cassio erano assenti. I sostenitori di quest’ultimi proposero che Cesare venisse riconosciuto come un tiranno, ma Antonio ribattè che in tale modo i decreti di Cesare sarebbero stati annullati, comprese le cariche da lui assegnati ai Cesaricidi. Cicerone riuscì a trovare un compromesso basato su tre punti: esequie pubbliche per Cesare, ratifica di tutti i suoi atti e amnistia per i cospiratori; il modello utilizzato era quello adottato da Trasibulo nel 403 a.C. ad Atene, dopo la fine del regime dei Trenta Tiranni. D’altra parte i veterani di Cesare presenti in città non avrebbero gradito nessuna decisione contraria all’ex dittatore. Il giorno stesso Antonio fece eleggere Lepido pontefice massimo dai comizi tributi e concordò il matrimonio tra sua figlia Antonia e il figlio maggiore di Lepido. Subito dopo inviò in ostaggio da Bruto e Cassio suo figlio e quello di Lepido, facendo circolare la voce che lui e Lepido avrebbero cenato con Bruto e Cassio.

Robertson, George Edward; Mark Antony’s Oration; Hartlepool Museums and Heritage Service; http://www.artuk.org/artworks/mark-antonys-oration-56885

Il giorno seguente il senato si riunì nuovamente su iniziativa di Lucio Calpurnio Pisone (padre di Calpurnia, sposa di Cesare dal 59 a.C. e console nel 58) nel medesimo tempio e parteciparono anche Bruto e Cassio. Antonio venne riconosciuto come colui il quale aveva salvato la repubblica da una nuova guerra civile; inoltre Pisone propose che il testamento di Cesare venisse aperto il 20 marzo, in concomitanza del funerale di Cesare (Plut. Ant. 14, 4). Secondo Livio e Svetonio (Svet. Caes. 83) il testamento era stato scritto da Cesare il 13 settembre del 45 a.C. e affidato alle vestali; aperto da Antonio su richiesta di Pisone, creò grande disagio nel console per via del suo contenuto.

Infatti non era lui l’erede di Cesare, ma il suo giovane pronipote Gaio Ottavio, adottato tramite testamento (ora Gaio Giulio Cesare Ottaviano), cui spettavano i due terzi del patrimonio dell’ex dittatore (il terzo andava ai pronipoti e cugini di Ottavio Quinto Pedio e Lucio Pinario); Antonio era posto perfino dopo alcuni Cesaricidi, come Decimo Bruto. Inoltre Cesare aveva disposto che andassero trecento sesterzi ai circa 150.000 abitanti di Roma che percepivano l’annona frumentaria; era altresì riservato loro l’uso dei suoi giardini privati al di là del Tevere.

Il funerale di un dittatore democratico

Il 20 marzo la salma di Cesare fu condotta nel foro e posta accanto alla tomba (ancora visibile), voluta dal popolo contro il volere dei tribuni (Plut. Caes. 23, 7); venne infatti realizzata una piccola edicola modellata sul tempio di Venere Genitrice proprio davanti i rostri. Il corpo di Cesare, posto su una pira e ricoperto di porpora e oro, mostrava in evidenza la veste insanguinata che indossava quando era stato ucciso. La visione della veste produsse grande fermento nella plebe che assisteva, secondo Quintiliano:

«La toga pretesta di Giulio Cesare, sporca di sangue, che fu mostrata durante il suo corteo funebre, fece infuriare il popolo romano: si sapeva che era stato ucciso, perché il suo cadavere era stato collocato sul catafalco, ma quella veste fradicia di sangue fece vedere con tale evidenza l’immagine del delitto che sembrava che Cesare non fosse stato ucciso, ma lo si stesse uccidendo proprio in quel preciso momento.»

Quint. Inst. VI, 1, 31

L’orazione funebre fu affidata a Marco Antonio, abile oratore: egli fu in grado di infiammare gli animi della folla, già turbati dalla vista della toga insanguinata. Antonio colse l’occasione per accusare i Cesaricidi, seppure aveva rifiutato di intraprendere azioni ostili per evitare una guerra civile. Poi aprì il testamento di Cesare: secondo Plutarco, quando il popolo seppe che Cesare aveva lasciato loro trecento sesterzi, esplose contro i Cesaricidi, raccogliendo tavoli, banchi, transenne, che vennero posti vicino al catasto di legna che sarebbe bruciato a breve. Inoltre uccisero per errore il tribuno della plebe Gavio Elvio Cinna, scambiato per il pretore Lucio Cornelio Cinna. I Cesaricidi furono costretti alla fuga, mentre la rabbia del popolo si riversava per Roma: la pira venne accesa da due uomini armati fino ai denti (Svet. Caes. 84, 2) e si sprigionò una gran quantità di fumo. La folla cominciò allora a gettare nella pira qualsiasi cosa trovassero a portata di mano, tra cui fiori, bambole, gomitoli, perfino le vesti che gli attori si strappavano di dosso. Sfuggiti dall’ira della plebe, i Cesaricidi sarebbero stati costretti, di lì a breve, a fuggire da Roma.


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Il testamento e il funerale di Giulio Cesare
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