“Non con l’oro ma col ferro si deve salvare la patria”. Così tuonava il dittatore Marco Furio Camillo nei confronti dei romani che stavano comprando la pace dai galli che assediavano Roma, stando allo storico di età augustea Tito Livio, autore di una vera e propria enciclopedia sulla storia romana. Ma come avevano fatto dei barbari a prendere la città che avrebbe dominato gran parte del mondo conosciuto? A guidare i galli senoni, provenienti dal Piceno, ovvero le odierne Marche, c’era un talentuoso comandante di nome Brenno, il cui significato celtico è “Corvo”. Era un epiteto dato a prestigiosi condottieri, come quel celta che nel 279 a.C. arrivò quasi a saccheggiare l’importantissimo santuario di Apollo a Delfi, sede dell’oracolo più famoso della Grecia e poiché Livio scrisse quasi tre secoli dopo potrebbe anche aver coniato il nome basandosi su questo precedente, visto anche l’epilogo simile, con il barbaro costretto a ritirarsi.

Il Brenno “italiano” guidava il popolo dei galli senoni, una tribù arrivata in Italia tra il V e IV secolo a.C. Infatti i celti, la macro famiglia a cui appartenevano i galli, a partire dall’età del ferro si erano espansi in molte zone d’Europa. Giunsero in Spagna, Italia, Britannia, Europa centrale e perfino in Asia Minore, dove si insediarono i celti galati. I senoni del Piceno si erano affermati nel corso del tempo come rinomati mercenari, ma non per questo non avevano creato solidi legami col territorio, come dimostra la toponomastica di Senigallia (Sena Gallica), loro capitale, per giungere alle numerose tombe rinvenute. Il famoso archeologo e scrittore Valerio Manfredi ne “I celti in Italia”, scritto in collaborazione con il collega francese Kruta, mette in evidenza quanto le necropoli dei senoni trasudino ricchezza: pregiati servizi da mensa, strigili, vasellame, che si abbinano più all’immagine del guerriero italico del tempo che non al rozzo gallo descritto dai romani.


Sconfitta e assedio

Nonostante i senoni avessero trovato nel Piceno la loro casa, nuove ricchezze si prospettavano a sud: fu così che Brenno nel 391 a.C. lanciò un attacco contro l’etrusca Chiusi. La ricchissima città intratteneva rapporti di amicizia con i romani, che decisero di inviare una spedizione diplomatica, guidata da tre membri della gens Fabia, una delle più importanti del tempo e che detenevano spesso le più elevate cariche politiche. Stando al racconto di Tito Livio i Fabii avrebbero mostrato risentimento per l’atteggiamento prevaricatore dei galli e si sarebbero lanciati contro i barbari, uccidendone uno dei comandanti. I senoni decisero pertanto di vendicarsi per l’affronto, che violava anche il diritto naturale in quanto avvenuto durante una pacifica trattativa. Sottolinea a tal proposito Manfredi come sia “evidente l’impronta sacerdotale e aristocratica delle fonti liviane”; lo storico romano, infatti, pone la questione sacrale e l’affronto alle più basilari leggi umane e divine come principale causa del disastro subito dai romani. Difatti i galli, guidati da Brenno, si diressero immediatamente verso Roma, reclamando vendetta e lasciando perdere Chiusi.

Allora, incombendo già il destino fatale sulla città di Roma, gli ambasciatori contravvenendo al diritto delle genti presero le armi; né poté rimaner celato il fatto che combattevano nelle prime file degli Etruschi tre giovani romani nobilissimi e valorosissimi, tanto rifulgeva il valore degli stranieri. Anzi Quinto Fabio, slanciatosi a cavallo fuori delle file, trafiggendolo nel fianco coll’asta uccise il condottiero dei Galli, che baldanzosamente si avventava contro le stesse insegne degli Etruschi; mentre ne raccoglieva le spoglie i Galli lo riconobbero, e per tutto l’esercito fu diffusa la voce che quello era un ambasciatore romano. Quindi deposta l’ira contro i Chiusini, i Galli suonarono la ritirata proferendo minacce contro i Romani. Alcuni erano del parere di marciare sùbito contro Roma, ma prevalse il consiglio dei più anziani, di mandare prima ambasciatori a protestare per l’offesa ed a chiedere che i Fabi fossero consegnati per aver violato il diritto delle genti.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 36, 5-8

I romani, impauriti, si precipitarono fuori l’Urbe, ma riuscirono a mettere in campo un esercito nettamente inferiore a quello nemico, che intercettarono a undici miglia a nord, presso il fiume Allia, il 18 luglio 390 a.C. Non solo, nel frattempo i Fabii avevano manipolato il senato e il popolo romano, per farsi anche affidare il comando dell’esercito. Era ormai scritto che il favore degli dèi pendesse verso i galli: lo scontro si trasformò rapidamente in una disfatta, sia a causa dell’impeto gallico, sia per l’inferiorità numerica dei quiriti. Da allora il dies allensis, il giorno dell’Allia, sarà sempre un giorno sfortunato per i romani. Quest’ultimi si diedero ben presto alla fuga, precipitandosi all’interno delle mura; tanto era il terrore che non vennero neanche chiuse le porte alle loro spalle. Ciò consentì ai galli di prendere senza colpo ferire Roma, mentre i superstiti si asserragliavano all’interno del Campidoglio, ultima roccaforte rimasta. I più deboli e anziani, che non riuscirono a scappare e che sarebbero stati ulteriori bocche da sfamare, decisero di attendere i galli in casa, consapevoli del loro triste destino.

“Li sentirono però le oche sacre a Giunone, che erano state risparmiate pur nella grande penuria di cibo. Questo fatto salvò i Romani; infatti destato dai loro schiamazzi e dallo sbattere delle ali Marco Manlio, che tre anni prima era stato console, uomo valoroso in guerra, afferrate le armi e insieme chiamando alle armi i compagni si fece avanti, e mentre gli altri erano presi dalla trepidazione, gettò giù urtandolo con lo scudo un Gallo che già aveva raggiunta la sommità. Questi precipitando avendo trascinato in basso i più vicini, Manlio ne uccise altri che impauriti avevano gettate via le armi e si erano aggrappati con le mani alle rocce a cui aderivano. Sùbito anche gli altri Romani accorsi si diedero a ricacciare i nemici con dardi e con sassi, e tutta la schiera dei Galli precipitando rovinosamente fu respinta al fondo”.

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 47

Secondo la tradizione i romani, ormai prostrati dall’assedio, mandarono a trattare con i senoni il tribuno militare Quinto Sulpicio, uno dei maggiori responsabili della disfatta dell’Allia e dei più alti in grado tra i difensori, visto che i galli non riuscivano a prendere il Campidoglio e gli assediati avevano poco cibo: i barbari avrebbero lasciato la città in cambio di un compenso in oro pari a mille libbre, all’incirca tre quintali. Una volta portata la bilancia però Brenno, non pago della vittoria, decise di volerne ancora di più, esclamando la celeberrima frase “vae victis”. Racconta Livio che “i Galli portarono dei pesi falsi, e alle proteste del tribuno il Gallo insolente aggiunse sulla bilancia la spada, pronunciando una frase intollerabile per i Romani: «Guai ai vinti».” Fu proprio allora che giunse in soccorso dei romani Marco Furio Camillo pronunciando l’ancora più celebre esortazione secondo cui la patria andava difesa con le armi e non barattando la salvezza con l’oro.

Non auro sed ferro patria recuperanda est

“Allora si riunì il senato, il quale diede incarico ai tribuni militari di patteggiare le condizioni. Le trattative si conclusero in un colloquio fra il tribuno militare Quinto Sulpicio e il capo dei Galli Brenno: a mille libbre d’oro fu fissato il prezzo del popolo che ben presto avrebbe dominato su tutte le genti. Alla cosa già in se stessa vergognosissima si aggiunse un iniquo oltraggio: i Galli portarono dei pesi falsi, e alle proteste del tribuno il Gallo insolente aggiunse sulla bilancia la spada, pronunziando una frase intollerabile per i Romani: «Guai ai vinti».”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 48, 8-9


Furio Camillo, uno dei principali uomini politici della Roma del tempo, durante la sua prima dittatura aveva conquistato la città di Veio, rivale storica dell’Urbe situata a pochi km a nord di Roma, per poi ritirarsi in esilio volontario ad Ardea, forse a causa di litigi sorti durante la spartizione dell’ingente bottino. Si trovava ancora nella città laziale quando venne nominato dai senatori assediati dittatore per la seconda volta, nel disperato tentativo di portare aiuto all’Urbe, prostrata dal lungo assedio. Per i romani, tuttavia, il dittatore non era un eversore dello Stato, bensì una figura legalmente riconosciuta che veniva eletta dal senato qualora eventi di eccezionale portata avessero necessitato di un solo uomo al comando e non di due consoli. Ma, per bilanciarne il potere, la carica durava sei mesi invece di un anno come avveniva per la gran parte dei magistrati, consoli inclusi. Dunque, il dittatore, rifiutando l’accordo dato che era stato stretto da un magistrato di grado inferiore, schierato l’esercito a battaglia, avrebbe poi inflitto una decisiva sconfitta ai galli, che si sarebbero dovuti ritirare. Inseguiti e affrontati di nuovo in campo aperto, sarebbero stati infine massacrati.

Le principali battaglie tra romani e galli

  • L’Allia, nel 390 o 388 a.C., la cui sconfitta condusse all’assedio di Roma.
  • Sentinum nel 295 a.C., chiamata battaglia delle nazioni poiché i romani vinsero galli e sanniti alleati.
  • Telamone nel 225 a.C., in cui vinsero i romani che si espansero a nord del Po.
  • Clastidium nel 222 a.C. segnò la completa conquista del nord Italia.
  • Bibracte nel 58 a.C. fu la prima grande vittoria di Cesare in Gallia.
  • Fiume Sabis nel 57 a.C., in cui Cesare annientò le tribù belgiche del nord della Gallia.
  • Assedio di Avarico e di Alesia nel 52 a.C., che garantirono a Cesare la conquista della Gallia.


Questa narrazione, che è una storia di redenzione e riscatto, è stata però fortemente messa in dubbio dagli storici. In primis mancano fonti coeve, dato che tutti gli archivi del tempo andarono bruciati; per di più è possibile che a quel tempo Camillo fosse già morto. Le fonti arcaiche, d’altra parte, lasciano intendere che Roma venne presa dai galli, come fa Quinto Ennio, poeta attivo circa duecento anni dopo, al tempo della seconda guerra punica, che ricorda come “quella notte i galli attaccarono le più alte mura della cittadella e fecero improvvisa strage dei difensori”. Anche Silio Italico, poeta del I secolo d.C., autore di un importante poema sulle guerre puniche, lascia intendere che i galli presero la città. Narra infatti delle “armi portate in processione da Camillo al suo ritorno, quando i galli furono cacciati dalla cittadella”. Perfino il greco Polibio, autore nel II secolo a.C. di una dettagliatissima storia sulla Roma repubblicana, forse il più affidabile fra gli autori del tempo, ignorava completamente la storia di Camillo. Probabilmente Livio romanzò l’avvenimento, prendendo il nome di Brenno dal comandante celta che aveva preso Delfi, infarcendolo di episodi che riscattavano i romani di fronte agli dèi per l’affronto dei Fabii.

“Ma gli dèi e gli uomini non vollero che i Romani sopravvivessero riscattati. Infatti la sorte volle che prima che fosse compiuto il vergognoso mercato, mentre ancora si discuteva, non essendo stato pesato tutto l’oro, sopraggiungesse il dittatore: sùbito ordinò che fosse tolto di mezzo l’oro e che i Galli fossero allontanati. Poiché quelli si rifiutavano dicendo che il patto era già stato concluso, egli negò che fosse valido quell’accordo stretto senza sua autorizzazione da un magistrato inferiore in grado, dopo che egli già era stato nominato dittatore, ed intimò ai Galli di prepararsi a combattere. Diede ordine ai suoi di deporre i bagagli, di preparare le armi e di riconquistare la patria col ferro, non con l’oro, avendo davanti agli occhi i templi degli dèi, le mogli, i figli, il suolo della patria deturpato dai mali della guerra, e tutte le cose che era sacro dovere difendere e riprendere e vendicare. Schierò poi l’esercito come lo permetteva la natura del luogo, sul suolo della città semidistrutta, e già di sua natura accidentato, e prese tutte quelle misure che l’arte militare poteva escogitare e preparare per avvantaggiare i suoi. I Galli sorpresi dal repentino mutamento della situazione prendono le armi, e si gettano contro i Romani più con ira che con prudenza. Già la fortuna era cambiata, già la protezione degli dèi e l’intelligenza umana appoggiavano le sorti dei Romani; quindi al primo scontro i Galli furono disfatti con la stessa facilità con cui avevano vinto presso l’Allia. Furono poi vinti, sempre sotto la guida e gli auspici di Camillo, in una seconda battaglia più regolare, a otto miglia da Roma sulla via di Gabi, dove si erano raccolti dopo la fuga. Qui la strage fu generale: furono presi gli accampamenti, e non sopravvisse neppure uno che potesse recare la notizia della disfatta. Il dittatore ritolta la patria ai nemici tornò trionfando in città, e fra i rozzi canti scherzosi, che i soldati sogliono improvvisare in tali occasioni, fu chiamato Romolo, padre della patria e secondo fondatore di Roma, con lodi non immeritate. Dopo aver salvata la patria in guerra la salvò poi sicuramente una seconda volta in pace, quando impedì che si emigrasse a Veio, mentre i tribuni avevano ripreso con maggior accanimento la loro proposta dopo l’incendio della città, ed anche la plebe era di per sé più incline a quell’idea. Questa fu la causa per cui non abdicò alla dittatura dopo il trionfo, poiché il senato lo scongiurava di non abbandonare la repubblica in un momento difficile.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 49, 1- 9

Per quanto vera o falsa, la tradizione suggellò Camillo, che in seguito sarebbe stato nominato dittatore per altre tre volte, come nuovo fondatore dell’Urbe: rientrando trionfante in città sarebbe stato infatti chiamato scherzosamente Romolo, padre della patria e secondo fondatore di Roma dai soldati che canticchiavano. Il dittatore esortò poi i senatori, molti dei quali volevano emigrare a Veio, a restare e ricostruire la città, ma fu solo grazie a un presagio che i padri coscritti vennero convinti. Infatti, in quel momento fuori dal senato sarebbe passato un manipolo di soldati e il centurione al comando avrebbe esclamato: «O alfiere, pianta l’insegna, qui rimarremo felicemente». Era la rinascita della potenza che avrebbe conquistato il Mediterraneo nei secoli a venire.

“Ma a togliere ogni incertezza sopraggiunse una frase pronunziata proprio a tempo: mentre poco dopo il discorso di Camillo il senato era riunito nella curia Ostilia per discutere della questione, e delle coorti inquadrate ritornando dai presidii per caso attraversavano il foro, un centurione nella piazza del Comizio esclamò: «O alfiere, pianta l’insegna, qui rimarremo felicemente». Udita quella voce il senato uscito dalla curia gridò che accoglieva quello come un augurio, e la plebe accorsa intorno approvò. Respinta quindi la proposta di legge si cominciò a ricostruire la città disordinatamente. Le tegole furono fornite a spese dello stato, e fu dato il permesso di prendere le pietre e il legname di costruzione dove ciascuno volesse, dietro garanzia di condurre a termine gli edifici entro l’anno. Nella fretta non si presero cura di tracciare vie diritte, e senza distinzione di proprietà si edificava sul terreno trovato libero. Questo è il motivo per cui le vecchie cloache, che prima passavano sotto il suolo pubblico, ora in molti punti passano sotto case private, e inoltre la topografia della città fa pensare che il suolo cittadino sia stato occupato a caso e non distribuito secondo un piano.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 55, 1- 5

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Furio Camillo e Brenno: la verità dietro la leggenda
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