Il 6 novembre del 331 d.C. nasceva Flavio Claudio Giuliano, soprannominato poi dai cristiani Apostata. Era l’unico parente superstite (insieme al fratellastro Costanzo Gallo) dei tre figli di Costantino, di cui era cugino, che nell’estate del 337 d.C., dopo la morte del padre, fecero piazza pulita dei loro consanguinei.

Giuliano decise di abbracciare pienamente il paganesimo dopo aver fatto conoscenza dei filosofi neoplatonici Libanio e Massimo a Costantinopoli, dove tornò dopo una vera e propria reclusione di sei anni in Cappadocia, dove era stato inviato dai cugini e venne allevato secondo gli insegnamenti cristiani.

Cesare

Quando Gallo, fratellastro di Giuliano, che era stato nominato Cesare da Costanzo, venne fatto uccidere da quest’ultimo, Giuliano, sospettato di avere tramato anch’egli contro l’imperatore, fu inviato in esilio, nell’estate del 355, ad Atene. Ma per un amante della cultura classica la punizione risultò essere più che altro un dono, potendo studiare il neoplatonismo.

Tuttavia pochi mesi dopo, viste le difficoltà che incontrava in Gallia, Costanzo richiamò il cugino. Il 6 novembre del 355 d.C., al compimento del suo ventiquattresimo compleanno, Costanzo II lo fece Cesare a Mediolanum. Infatti gli altri fratelli di Costanzo erano morti: Costantino II facendo la guerra al fratello Costante e quest’ultimo era stato sconfitto da Magnezio nel 350.

Infine anche l’usurpatore gallico era caduto per mano di Costanzo II e questi si era ritrovato a governare un impero enorme, decidendo infine di dividerlo col cugino, unico parente superstite (dopo aver fatto assassinare anche Gallo, che aveva nominato Cesare prima di lui) e di dargli in moglie la sorella Elena.

«Subito dopo aver così parlato (Costanzo) rivestì Giuliano della porpora avita e lo proclamò Cesare tra le acclamazioni di gioia dell’esercito. Rivoltosi a lui, che aveva i lineamenti del volto contratti e quasi mesti, gli disse:

«In giovane età, carissimo cugino, hai ricevuto lo splendido fiore della tua origine. Riconosco che la mia gloria s’è accresciuta, poiché nel concedere un’autorità quasi pari alla mia ad un mio nobile parente mi sembra d’essere altrettanto giusto quanto grande nell’esercizio del mio stesso potere. Sii dunque partecipe delle mie fatiche e dei miei pericoli ed assumi l’incarico di difendere le Gallie per sollevare con ogni genere di benefici quelle regioni duramente provate. Se sarà necessario venire a battaglia con i nemici, poniti con fermo piede proprio fra i signiferi, esorta con ponderatezza all’audacia al momento opportuno, infiamma con somma cautela i combattenti andando innanzi a loro, sostieni con il tuo aiuto quanti sono turbati, rimprovera con misura i pigri, e sii pronto ad essere veridico testimone sia dei prodi che dei vili. Quindi, di fronte alla gravità della situazione, tu che sei valoroso, mettiti in cammino, per essere a capo di uomini altrettanto valorosi. Saremo vicini l’uno all’altro con saldo e costante affetto, combatteremo assieme per reggere uniti, con pari equilibrio ed amore, il mondo riportato alla pace, purché la divinità ci conceda ciò che chiediamo. Dovunque mi sembrerà d’averti vicino, né io ti sarò lontano qualsiasi impresa tu stia per compiere. Va’ dunque ed affrettati, accompagnato dagli augùri di tutti, a difendere con vigile cura il posto di combattimento come se lo stato in persona te l’avesse assegnato».

Alla fine di questo discorso nessuno rimase in silenzio, ma tutti i soldati, battendo con orrendo fragore gli scudi sulle ginocchia (segno questo di piena approvazione, mentre il battere le aste sugli scudi è indizio d’ira e di dolore), approvarono, ad eccezione di pochi, con incredibile gioia la decisione dell’Augusto e salutavano con l’ammirazione che meritava il Cesare, splendente nel fulgore della porpora imperiale. Osservando attentamente ed a lungo i suoi occhi belli e terribili ad un tempo ed il volto amabile pur nella sua eccitazione, cercavano di dedurne il carattere come se consultassero dei vecchi libri la cui lettura mostra la natura dell’animo attraverso le caratteristiche fisiche. E per esprimergli maggior rispetto, né lo lodavano oltremodo, né meno di quanto convenisse, tanto che i loro furono ritenuti giudizi di censori, non di soldati. Infine fu fatto salire sul cocchio imperiale assieme all’Augusto e, mentre veniva accolto alla reggia, mormorava questo verso d’Omero: «Lo colse la Morte purpurea e la Parca possente». Questa cerimonia avvenne il 6 novembre durante il consolato di Arbizione e di Lolliano. Pochi giorni appresso al Cesare fu data in sposa Elena, sorella non maritata di Costanzo e, portati a termine tutti i preparativi richiesti dall’imminenza della partenza, il I° dicembre Giuliano partì con un piccolo séguito.»

(Ammiano Marcellino, Storie, XV, 8, 11-18)

Giuliano si dimostrò un buon amministratore e comandante, vincendo gli alemanni ad Argentoratum (Strasburgo) nel 357 d.C. Venne infine acclamato Augusto e imperatore dai soldati gallici nel 360, scontenti alla notizia di Costanzo II che aveva chiesto quei reparti per la sua campagna persiana. Giuliano tentennò, ma infine accettò: non si venne allo scontro solo perché Costanzo II morì prima, in Cilicia: l’imperatore pagano era rimasto unico imperatore (pare che Costanzo lo avesse adottato in punto di morte).

Imperatore

Dopo la morte di Costanzo, il 3 novembre del 361, Giuliano rimase unico imperatore, senza avere altri oppositori; raggiunse Costantinopoli senza problemi, grazie all’appoggio di Saluzio, che era stato suo quaestor sacri palatii in Gallia e che, allontanato da Costanzo, aveva permesso poi di farlo accogliere pacificamente in oriente.

Giuliano promosse innanzitutto il culto pagano a discapito del cristianesimo, nonostante un primo editto di tolleranza del dicembre 361, impedendo poi ai maestri cristiani di insegnare (dicendo che gli insegnamenti, perlopiù pagani, erano in contraddizione con la fede), dall’estate del 362. Anche per questo motivo, e per aver rinnegato gli insegnamenti ricevuti in tenera età, venne chiamato dai cristiani Apostata.

«Sebbene dalla prima fanciullezza fosse piuttosto incline al culto degli dèi e con il passare degli anni ne fosse sempre più acceso, tuttavia, temendo per molte ragioni, praticava alcuni di questi riti nella massima segretezza. Allorché però, venuti meno i motivi della paura, si rese conto che era giunto il tempo di fare liberamente ciò che voleva, manifestò apertamente i suoi segreti pensieri e con decreti chiari e ben definiti ordinò di riaprire i templi, di portare vittime agli altari ed insomma di ristabilire il culto agli dèi. Per rafforzare l’effetto di queste disposizioni fece venire alla reggia i vescovi cristiani, che erano in discordia fra loro, assieme al popolo pure in preda ad opposte fazioni, e li esortò con belle maniere a mettere da parte le discordie ed a praticare ciascuno la propria religione senz’alcun timore e senza che nessuno l’impedisse. Egli era fermo in questa linea di condotta in modo che, aumentando i dissensi per effetto dell’eccessiva libertà, non avesse da temere successivamente un popolo compatto, poiché ben sapeva per esperienza che nessuna fiera è così ostile agli uomini, come la maggior parte dei Cristiani sono esiziali a se stessi. Soleva spesso dire: «Ascoltate me, cui prestarono ascolto gli Alamanni ed i Franchi», ritenendo di imitare il detto dell’antico imperatore Marco Aurelio. Ma non si rese conto che i casi erano troppo diversi. Quello infatti, attraversando la Palestina diretto in Egitto, nauseato spesso dal fetore e dai tumulti dei Giudei, si dice esclamasse disgustato: «O Marcomanni, o Quadi, o Sarmati, ho trovato finalmente un popolo più inquieto di voi.»

(Ammiano Marcellino, Storie, XXII, 5, 1-5)

Tuttavia Giuliano non perseguitò mai direttamente i cristiani, cercando invece di favorire in ogni modo i pagani, realizzando una gerarchia sacerdotale analoga, e di combattere la povertà, togliendo dunque due delle basi su cui la fortuna del cristianesimo si basava. Scrisse anche moltissimo, tra cui il Misopogon (Odiatore della barbara), un’operetta satirica contro chi, ad Antiochia, lo prendeva in giro per la barba.

Ancora più famoso fu Contro i Galilei, in cui l’imperatore muoveva un durissimo attacco ai cristiani, definendo la religione dei seguaci di Cristo basata essenzialmente sulla superstizione e credenze erronee e prive di fondamento. Ma comunque Giuliano era un filosofo, e fu più che altro un propugnatore del neoplatonismo.

La guerra persiana e la fine

Giuliano tuttavia era convinto che per dimostrare la supremazia della cultura classica e pagana bisognasse dimostrare che i dei erano dalla sua parte, sconfiggendo il secolare nemico persiano. Giuliano invase la Persia nell’estate del 363, ma dopo le iniziali vittorie fu costretto a ritirarsi, poiché Procopio, cui aveva affidato parte dell’esercito e che doveva arrivare dall’Armenia, era scomparso.

Sotto le mura di Ctesifonte, nonostante un’altra vittoria riportata proprio nei pressi della città, Giuliano decise di bruciare le navi che accompagnavano i romani poiché non sarebbero potute tornare controcorrente, e di iniziare la ritirata.

Ma non fu semplice tornare indietro; i persiani, maestri della guerriglia, apparivano all’improvviso per colpire i romani. Giuliano venne infine ferito durante una scaramuccia a Maranga, morendo di lì a poco. Racconta Ammiano Marcellino che sarebbe intervenuto senza indossare la corazza e questo gli sarebbe stato fatale. Morì il 26 giugno del 363. L’esercito avrebbe scelto come suo successore il cristiano Gioviano, che trattò una frettolosa pace, e l’anno dopo morì anche lui.

«Allorché partimmo da quella località, i Persiani, che per le sconfitte spesso subite avevano terrore delle battaglie campali con la fanteria, tesero insidie e ci seguivano nascostamente osservando da alti colli da entrambe le parti la marcia delle schiere, in modo che i nostri soldati, messi in sospetto, per tutta la giornata né costruissero un vallo né si fortificassero con palizzate. Mentre i fianchi erano efficacemente protetti e l’esercito, come esigeva la natura del terreno, avanzava in formazioni quadrate, ma non compatte, fu annunciato all’imperatore, il quale ancora disarmato s’era spinto innanzi per esplorare, che la retroguardia era stata improvvisamente attaccata alle spalle. Fuor di sé per questa notizia infausta, dimenticò la lorica e, afferrato nella confusione uno scudo, si affrettava a portare aiuto alla retroguardia, ma fu distolto da un’altra preoccupazione, poiché gli veniva annunciato che anche i soldati della prima linea, dai quali s’era allontanato, stavano subendo un eguale attacco. Mentre, dimentico di sé stesso e del pericolo che correva, si affrettava a porre riparo a queste minacce, da un’altra parte uno squadrone di corazzieri persiani attaccò le centurie del centro. Gettatisi con impeto sopra il lato sinistro che già aveva ceduto, poiché i nostri non sopportavano il fetore ed il barrito degli elefanti, i Persiani combattevano con lance ed un gran numero di dardi. Ma, mentre l’imperatore correva dove il pericolo della battaglia era più grave, balzarono fuori i nostri fanti armati alla leggera e colpirono ai garetti ed alle spalle i Persiani messi in fuga e così pure le fiere. Quando Giuliano, incurante di se stesso, con grida ed alzando le mani cercò di indicare chiaramente che i nemici trepidanti s’erano dispersi in fuga, e, eccitando l’ira di quanti li inseguivano, si gettò audacemente nella mischia, da tutte le parti gli gridavano le guardie del corpo, disperse dal terrore, che evitasse la massa dei soldati in fuga come il crollo di un tetto mal costruito. Ma improvvisamente, non si sa donde provenisse, una lancia della cavalleria gli sfiorò il braccio ed attraverso le costole gli si conficcò fra i lobi più bassi del fegato. Mentre tentava di estrarla con la destra, s’accorse che i nervi delle dita gli erano stati recisi dal ferro aguzzo da entrambe le parti. Cadde da cavallo e, soccorso immediatamente dai presenti, fu riportato nell’accampamento dove fu sottoposto alle cure dei medici. Poco dopo, diminuito alquanto il dolore, cessò di temere e, lottando con grande coraggio contro la morte, chiedeva le armi ed il cavallo per ridare fiducia alle truppe con il suo ritorno in battaglia e per mostrarsi non ansioso per la propria sorte, ma profondamente preoccupato per la salvezza altrui. Dava prova, sebbene in una situazione ben diversa, dello stesso vigore con cui quel celebre comandante Epaminonda, colpito a morte a Mantinea, dopo essere stato riportato nella sua tenda, chiedeva con affannosa cura il suo scudo. Allorché lo ebbe visto vicino, si rallegrò e morì per la gravità della ferita, di modo che chi intrepido perdeva la vita, temeva per la perdita dello scudo. Ma, poiché la volontà non era sorretta dalle forze e d’altronde egli soffriva per la perdita di sangue, rimase immobile dopo aver perduto la speranza di sopravvivere, dato che, informatosi, aveva appreso che il luogo, dov’era caduto, si chiamava Frigia. Infatti aveva saputo che in questo luogo egli sarebbe morto per volontà del destino. Ma è incredibile con quanto ardore, dopo che l’imperatore fu riportato nella tenda, i soldati si slanciassero a vendicarlo fuori di sé per l’ira ed il dolore, battendo le lance sugli scudi e decisi anche a morire, se questa fosse la volontà della sorte. Sebbene una densa polvere offuscasse loro la vista ed il calore torrido togliesse vigore alle membra, tuttavia, come se fossero congedati in séguito alla perdita del comandante, si gettavano contro le armi nemiche senza riguardo per la propria vita. D’altra parte i Persiani con maggior coraggio toglievano agli avversari per mezzo di una pioggia di dardi la possibilità di vederli, mentre gli elefanti, che li precedevano lentamente, incutevano terrore ai cavalli ed agli uomini con la grandezza dei loro corpi e con le orrende creste. Pertanto si udiva anche a distanza lo scontrarsi dei guerrieri ed il gemito di quanti cadevano, il nitrire dei cavalli ed il tintinnio del ferro, finché, essendo tutt’e due le parti stanche e sazie di ferite, la notte ormai profonda separò i contendenti. Caddero in quella battaglia cinquanta nobili e satrapi persiani assieme ad un grandissimo numero di soldati semplici; morirono fra gli altri i famosissimi generali Merena e Nohodare. La magniloquenza degli antichi ammiri pure, piena di stupore, le venti battaglie di Marcello combattute in diverse località; aggiunga anche Sicinio Dentato ornato di un gran numero di corone militari; ammiri inoltre Sergio, che, a quanto si tramanda, fu ferito ventitré volte in vari combattimenti, ed il cui ultimo discendente, Catilina, oscurò con macchie indelebili lo splendore delle gloriose vittorie. Tuttavia la tristezza offuscava la gioia per il successo. Quest’era la situazione generale dopo che Giuliano si era allontanato dal campo e, poiché il fianco destro dell’esercito era sfinito dalla stanchezza ed era stato ucciso Anatolio, che ricopriva la carica di capo della cancelleria, il prefetto Saluzio si trovò in una situazione pericolosissima. Ma, liberato dal pericolo per opera di un suo aiutante, riuscì a salvarsi mentre Fosforio, un consigliere che per caso si trovava presente, perdette la vita. Alcuni funzionari di corte e soldati, che in mezzo a numerosi pericoli avevano occupato una fortezza vicina, appena tre giorni dopo poterono ricongiungersi con l’esercito. Nel frattempo Giuliano, che giaceva nella tenda, parlò a quanti gli stavano attorno abbattuti e tristi: «È arrivato, amici, il momento assai opportuno di uscire di vita. Giunto al momento di restituirla alla natura, che la richiede, come un debitore leale mi rallegro e non mi rattristo né mi dolgo (come alcuni pensano), poiché ben so, per opinione unanime dei filosofi, quanto l’anima sia più felice del corpo e penso che, ogniqualvolta una condizione migliore venga separata da quella peggiore, dobbiamo rallegrarci, non dolerci. Penso pure che anche i celesti diedero la morte ad alcune persone piissime come massimo compenso. Ma io ben so che mi è stato dato il dono della vita perché non soccombessi di fronte a gravi difficoltà, né mai mi umiliassi né mi piegassi, dato che sono ben conscio che tutti i dolori, se da un lato hanno il sopravvento sugli ignavi, cedono di fronte a quanti resistono loro. Né io mi pento di quanto ho fatto, né mi sfiora il ricordo di qualche delitto; sia nel periodo in cui ero costretto all’oscurità ed alla miseria, che dopo essere stato assunto all’impero, ho conservato pura la mia anima (almeno così ritengo), che penso tragga origine dagli dèi immortali ai quali è affine. Giacché ho amministrato la vita civile con equilibrio ed ho mosso ed affrontato guerre dopo matura deliberazione, sebbene non sempre i successi e l’utilità delle decisioni prese vadano di pari passo, poiché forze a noi superiori rivendicano a sé i risultati delle imprese umane. Considerando tuttavia che scopo di un giusto impero è il benessere e la sicurezza dei sudditi, io fui sempre, come ben sapete, più propenso a misure di pace ed esclusi dai miei atti ogni forma di arbitrio, che corrompe le azioni ed i caratteri. Me ne vado lieto poiché sono consapevole che, ogniqualvolta lo stato, come un padre imperioso, mi ha esposto deliberatamente ai pericoli, io sono stato ben saldo, avvezzo com’ero a calpestare i turbini della sorte. Né mi vergognerò d’ammettere che da tempo sapevo, in séguito ad una profezia sicura, che io sarei perito di ferro. Perciò adoro la divinità eterna, perché non muoio in séguito ad insidie nascoste, né dopo una lunga e dolorosa malattia, né condannato come un criminale, ma perché ho meritato questa splendida fine a mezzo il corso della mia fiorente gloria. Infatti è giustamente considerato pauroso ed ignavo chi desidera la morte quando non è necessaria come chi la evita quand’è opportuna. Mi basta d’aver detto questo; ora le forze mi vengono meno. Riguardo all’elezione del mio successore, cautamente taccio, per non omettere imprudentemente qualcuno che sia degno o per non esporlo all’estremo pericolo nominando chi ritengo adatto a questo compito, se per caso un altro gli venisse preferito. Ma, come un onesto figlio dello stato, desidero che si trovi dopo di me un buon imperatore». Dopo aver pronunciato serenamente queste parole, distribuì, come con un ultimo decreto, agli amici più intimi il suo patrimonio familiare e chiese di Anatolio, capo della cancelleria. Poiché Saiuzio gli rispose che era stato felice, ne comprese la fine e pianse vivamente la morte dell’amico, proprio lui che con animo nobile aveva disprezzato la propria. Nel frattempo tutti i presenti piangevano, ma Giuliano, che conservava ancora tutta la sua autorità, li rimproverava affermando che era da vili piangere un sovrano che si stava ricongiungendo al cielo ed alle stelle. Essi perciò tacquero ed egli disputò profondamente con i filosofi Massimo e Prisco sulla nobiltà dell’animo. Ma, essendosi troppo aperta la ferita al fianco dov’era stato colpito ed impedendogli l’infiammazione del sangue di respirare, dopo aver bevuto dell’acqua fredda, spirò serenamente nel cuor della notte all’età di 32 anni. Era nato a Costantinopoli ed era rimasto solo sin dalla fanciullezza in séguito alla fine del padre Costanzo, ucciso dopo la morte del fratello Costantino assieme a molti altri nelle lotte che accompagnarono la successione, e della madre Basilina appartenente ad antica nobiltà.»

(Ammiano Marcellino, Storie, XXV, 3, 1-23)

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