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Quo vadis? è un film del 1951, diretto da Mervyn LeRoy. È un adattamento di S.N. Behrman, Sonya Levien e John Lee Mahin del romanzo storico omonimo di Henryk Sienkiewicz, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1905.Nel film, distribuito dalla Metro-Goldwyn-Mayer e girato prevalentemente a Roma, recitano attori di fama internazionale come Robert Taylor, Deborah Kerr, Leo Genn e Peter Ustinov.

Trama

Origine del nome

L’azione si svolge a Roma tra l’estate del 64 e il 68, durante il principato di Nerone. Il tema è il conflitto tra il cristianesimo e la corruzione e depravazione dell’Impero Romano.

Il titolo, in latino, significa Dove vai?, e si riferisce all’incontro tra san Pietro e Cristo sulla via Appia. Secondo gli Atti di Pietro, questi, in fuga dalle persecuzioni di Nerone ebbe una visione di Cristo. Pietro tornò a Roma e morì crocifisso, ai piedi del Colle Vaticano, dove oggi si trova la Basilica di San Pietro.

Il generale vittorioso ritorna in patria

Il film racconta la storia del comandante militare romano della XIV Legione, il console Marco Vinicio. Sulla strada del ritorno a Roma, dopo 3 anni di vittoriose campagne militari contro i Britanni, riceve da un pretoriano l’ingiunzione imperiale di non entrare nella capitale: furioso, si reca personalmente a Palazzo chiedendo udienza all’Imperatore, mentre Nerone interloquisce con Seneca e Petronio, zio di Marco.

Marco Vinicio viene ospitato dal console Aulo Plauzio nella sua casa: qui conosce e si innamora della figlia adottiva, Licia, una cristiana che resiste al suo corteggiamento, opponendogli i dettami del nuovo culto del quale rimane incuriosito. Anche se cresciuta fin da bambina come romana perché era la figlia adottata di un generale in pensione – Licia fa di nome Carlina, figlia del re di Licia – è tecnicamente un ostaggio di Roma. Marco persuade Nerone a darla a lui per i suoi meriti militari. Licia si risente per questo, ma l’amore per Marco prevale.

Chi era Nerone nella realtà?

Lucio Domizio Enobarbo, diventato Nerone dopo essere stato adottato dall’imperatore Claudio, fu l’ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia, la prima a reggere l’impero romano. Diventò imperatore appena diciassettenne dopo che la madre Agrippina avvelenò un piatto di funghi, di cui era ghiotto Claudio, nel 54 d.C. Temeva infatti che il figlio di Claudio, Britannico, potesse prendere il posto di Nerone, figlio avuto da lei prima del matrimonio con l’imperatore. Agrippina era imparentata praticamente con ogni imperatore precedente, compreso lo stesso Claudio: nipote di Marco Antonio, Agrippa e Augusto, figlia di Germanico, sorella di Caligola e quindi Claudio era lo zio materno.

(GERMANY OUT) Ustinov, Peter - Actor, Great Britain - *16.04.1921-29.03.2004+ Scene from the movie 'Quo Vadis'' Directed by: Mervyn LeRoy USA 1951 Produced by: Metro-Goldwyn-Mayer (MGM) Vintage property of ullstein bild (Photo by ullstein bild/ullstein bild via Getty Images)

Agrippina, abile manipolatrice, nel 49 d.C. sposò Claudio dopo l’eliminazione di Messalina e affidò il giovane Nerone a Seneca, mentre fu imposto il fidanzamento tra Nerone e Ottavia, figlia di Claudio. Poco dopo l’elevazione alla porpora di Nerone Agrippina si premurò di eliminare anche Britannico. Nerone a 17 anni era il più giovane imperatore romano ed era accerchiato da tre figure pesantissime: la madre Agrippina, Seneca e il prefetto al pretorio Burro. Da parte sua Nerone amava profondamente l’arte e la musica.

Inizialmente il principato di Nerone è ricordato in modo entusiasta dai contemporanei: è il quinquennium Neronis, il quinquennio del buon principe, sullo stile augusteo, forse coadiuvato anche da Seneca. Nerone allontanò Ottavia, che mal sopportava, per Poppea, di cui era innamorato. Lei sì sposò con Otone in un matrimonio di facciata (per ordine di Nerone), che diventerà imperatore dopo la morte di Nerone. Inizia ora il periodo “buio” di Nerone. Forse sotto l’influenza di Poppea cerca di far assassinare la madre simulando un incidente, ma questa si salva, e quindi è costretto a inviare dei soldati a farla fuori: Nerone voleva ingombrarsi dell’ombra pesante di Agrippina, che lo condizionava. Morta Agrippina, nel 62 d.C. Nerone ripudiò Ottavia accusandola di sterilità, per sposare Poppea. Infine la spinse al suicidio. Nello stesso anno morì Burro (forse avvelenato da Nerone) e fu sostituito da Tigellino, persona senza scrupoli nel macchiarsi di delitti. Divenne ricchissimo e potentissimo. Poppea morì forse attorno al 66 d.C. e Nerone sposò Statilia Messalina. Due anni dopo, dichiarato nemico pubblico dal senato per le spese folli che aveva intrapreso per ricostruire Roma dopo l’incendio del 64, morì suicida.

La follia di Nerone

Ritornando a Quo Vadis?, nel frattempo, le atrocità di Nerone diventano sempre più scandalose ed i suoi atti più folli. Quando l’imperatore fa bruciare Roma, con lo scopo di ricostruire una città a sua immagine e somiglianza, impaurito dalla collera dei cittadini romani, accusa i cristiani. Marco corre a salvare Licia e la famiglia di lei. Nerone li cattura insieme a tutti i cristiani, e li condanna ad essere uccisi nell’arena. Anche Marco è arrestato per aver tentato di salvare Licia. In carcere, Pietro, arrestato anche lui, unisce in matrimonio i due giovani; infine, Pietro è crocifisso a testa in giù, dietro sua richiesta.

Poppea, la moglie di Nerone che brama l’amore di Marco, elabora una diabolica vendetta per il suo rifiuto. Licia è legata ad un palo di legno nell’arena. Viene fatto entrare nell’anfiteatro un toro selvaggio, ed Ursus, l’enorme guardia del corpo di Licia, deve cercare di difenderla dall’animale a mani nude. Marco è legato al palco degli spettatori e costretto a guardare l’orrendo spettacolo coi suoi carcerieri, assisi in tribuna per godere dello spettacolo.

Quando la situazione sembra senza speranza, Marco implora l’intervento divino: «Cristo, dagli forza!». L’auspicio si avvera: con forza sovrumana Ursus riesce a spezzare il collo del toro. La folla, enormemente impressionata dal coraggio di Ursus, esorta Nerone a risparmiare lui e Licia. L’imperatore, sdegnato dall’inatteso esito, contraria la folla mostrando il pollice verso, ossia rifiutando la grazia (secondo l’interpretazione errata data da chiunque del pollice verso – mai esistita in antichità come la intendiamo noi ma dovuta al dipinto di Gerome “pollice verso”).

Pollice Verso *oil on canvas *97,4 x 146,6 cm *1872

Il pollice verso

L’idea del pollex versus è stata totalmente travisata dai moderni. In antichità per giudicare i gladiatori – che dal I al III sec. d.C. non potevano per legge fare combattimenti all’ultimo sangue e che erano sempre divisi a coppie con un arbitro per ogni coppia come degli antichi pugili, dividendoli se si azzuffavano rabbiosamente invece di combattere armonicamente (senza contare i costi e i pochi combattimenti gladiatori l’anno che rendevano uno spreco totale l’uccisione ripetuta di gladiatori che secondo tutti avveniva normalmente nell’arena. E’ un caso diverso quello dei damnati ad ludum, cioè condannati a morte che devono combattere nell’arena) – si usava il pollex versus, che però era rivolto verso l’alto o orizzontalmente, a indicare una spada che uccide, mentre il pollex pressus, ossia il pugno chiuso, indicava una spada nel fodero e quindi il risparmiare del gladiatore sconfitto (cosa che era l’assoluta normalità – veniva decretata la morte solo se lo sconfitto aveva combattuto veramente male o vigliaccamente, cosa alquanto improbabile per gladiatori professionisti).

La fine di un imperatore

Ritornando a Quo Vadis, in quel momento Marco spezza le corde che lo tenevano legato, balza nell’arena, libera Licia con l’aiuto delle sue truppe fedeli, rivela al pubblico il proprio nome e annuncia che il generale Galba in quel momento è in marcia su Roma, intenzionato a rovesciare il principato di Nerone. La folla, fermamente convintasi che sia Nerone, e non i cristiani, il responsabile dell’incendio di Roma, si rivolta. Nerone fugge a Palazzo, dove strangola Poppea, incolpandola di averlo mal consigliato. Atte, la donna cristiana che in passato aveva amato Nerone senza esserne ricambiata, ed anzi allontanata, lo implora di suicidarsi prima che la folla che ha assaltato il palazzo lo uccida: poiché ha vissuto come un mostro, ora dovrebbe morire come un imperatore.Nerone non è in grado di togliersi la vita, così Atte gli pianta un pugnale nel petto. Marco e Licia ora sono liberi e trovano la felicità.

Storia e leggenda

Nel film sono presenti i più classici stereotipi: i cristiani buoni, i romani nazi-fascisti. Peter Ustinov, Nerone, recita con un forte accento scozzese, mentre Robert Taylor, Marco Vinicio, ha uno spiccato accento americano: in tutto e per tutto i cristiani sono il popolo nuovo, come gli americani, portatori di saggezza, virtù e liberazione dalla tirannide. Ustinov per forza di cose recita in inglese, ma l’accento scozzese tradisce l’idea, profondamente radicata nella mente degli autori, volontaria o meno che fosse, che l’autoritarismo sia qualcosa di europeo e che ci sia bisogno di un americano per liberare gli “oppressi”.

tigellino

Nerone è una specie di Mussolini o Hitler, folle, al di fuori del mondo, vive in una realtà tutta sua, fatta di arte e musica. I suoi collaboratori più fedeli, a partire dal fedele prefetto al pretorio Tigellino, sono dei gerarchi fascisti dell’antichità: vestono di nero, hanno pose fasciste, fanno il saluto romano. Forse non pienamente coscienti del messaggio che mandavano, la prima idea che abbiamo di Roma, dopo tanto tempo, è ancora di un pazzo che dà fuoco alla più grande città del mondo antico perchè ne voleva costruire una nuova a suo gusto e piacimento.

Chi bruciò Roma?

L’incendio nacque probabilmente in modo spontaneo, nel Circo Massimo. Era estate e faceva molto caldo, Roma era costruita in larga parte in legno; il legno era ovunque. Le fiamme divamparono fin da subito in modo incontrollato nel cuore della città.

« Seguì un disastro, non si sa se dovuto al caso oppure al dolo del principe (poiché gli storici interpretarono la cosa nell’uno e nell’altro modo) »

Tacito, Annali, XV, 38.1

Infatti già si era sparsa la voce che Nerone avesse appiccato l’incendio. L’imperatore era rientrato precipitosamente da Anzio, dove risiedeva in quel momento, per prestare i primi soccorsi. Anche le 7 coorti di vigili entrarono subito in azione, ma i mezzi dell’epoca erano limitati; non potevano fare molto, a parte radere al suolo gli edifici attigui e cercare così di limitare le fiamme:

« Questi provvedimenti per quanto di carattere popolare cadevano nel vuoto, poiché si era diffusa la voce che proprio nel momento in cui Roma bruciava egli fosse salito sul palcoscenico del suo palazzo e avesse cantato la distruzione di Troia, paragonando il disastro presente alle antiche sventure. »

Tacito, Annali, XV, 39.3

Il secondo incendio

Fin da subito, quindi, era circolata la voce secondo cui Nerone aveva deliberatamente bruciato Roma e, non pago, avesse anche cantato l’incendio di Troia mentre le fiamme divampavano. Quel che sappiamo tuttavia è che Nerone si prodigò nell’aiutare la gente di Roma, mettendo anche a rischio la propria sicurezza (fatto non trascurabile se fosse stato ritenuto dai più l’incendiario). Inoltre prese fuoco anche la domus transitoria, l’abitazione di Nerone, contenente inestimabili opere d’arte che l’imperatore adorava e che non aveva fatto portare via (se avesse appiccato l’incendio si sarebbe sicuramente premurato di salvare le opere d’arte). Quando l’incendio si placò, dopo aver abbattuto molti edifici per precauzione, divampò nuovamente, a partire dalle proprietà di Tigellino, prefetto al pretorio. Il che portò a nuove voci secondo cui Nerone avrebbe voluto distruggere la città e costruirla a sua immagine e somiglianza.

« Seguì un disastro, non si sa se dovuto al caso o alla perfidia del principe, in quanto le fonti tramandano entrambe le versioni, ma certamente più grave e più spaventoso di ogni altro che si sia mai abbattuto su Roma per la violenza del fuoco. »

Tacito, Annali, XV, 38.1

Già circolavano voci, come detto da Tacito, sulle presunte responsabilità di Nerone. Per questo il principe decise di incolpare quella che ai suoi occhi era una fervente setta ebraica, i cristiani.

« Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo »

TACITO, ANNALES, XV, 44

Poco dopo si scoprì una congiura, la cosiddetta congiura dei Pisoni. Si progettava di uccidere Nerone, ma i congiurati vennero scoperti. Uno dei complici, Subrio Flavo, tribuno della guardia pretoriana, fu interrogato. Disse a Nerone che lo aveva cominciato a odiare da quando era diventato l’assassino della madre, della moglie, un auriga, un attore e un incendiario. Ma Subrio Flavo era stato accanto a Nerone durante l’incendio. L’imperatore aveva certamente fatto assassinare la madre e la moglie, era forse un pazzo, ma non uno stupido.

Nerone condannò molti congiurati a morte, costringendo al suicidio anche Seneca e Petronio. Approfittò comunque dell’incendio per costruire un’immensa casa, la domus aurea. La costruzione fu estremamente rapida, considerando che quattro anni dopo l’incendio Nerone morì. La costruzione di questa sfarzosa dimora è da sempre additata come prova della colpevolezza di Nerone. Piuttosto sarebbe da considerare, secondo l’uso romano, un ragionamento “post hoc ergo propter hoc” (“dopo di questo, a causa di questo”), cioè la domus aurea non è la causa ma la conseguenza, l’occasione intravista da Nerone e subito messa in atto.

In seguito alla sua morte, i terreni furono resi al popolo romano attraverso la costruzione di edifici pubblici: il laghetto venne prosciugato e Vespasiano ci edificò il Colosseo, una parte della domus fu interrata e usata come fondamenta per le terme di Traiano.

L’eredità rielaborata, decostruita e ricostruita

Dunque Peter Ustinov in questa pellicola ha sicuramente generato un’idea diffusa secondo cui Nerone fosse l’incendiario e cantasse la caduta di Troia da lui stesso composta mentre le fiamme bruciavano Roma. Questa leggenda crea qualcosa di positivo nella società, nella comicità, nei fumetti e in molto altro, ma diventa pericolosa quando la si strumentalizza (e tanto più per personaggi storici più recenti). Per questo è necessario capire che i piani storici, quello della storia antica, e quella costruita attorno ad essa con letteratura,arte, film, non si sovrappongono quasi mai (anche se tendenzialmente quello più diffuso – in questo caso il film – tende a inglobare gli altri). Esistono pertanto più storie: quella che attualmente è ritenuta quella vera (Nerone che si getta nelle fiamme per aiutare Roma) e quelle create. Dicerie a parte entrambe hanno il loro valore. Per questo sono storie romane.  In parte anche questo ha fatto la fortuna di Roma. Ma saper cogliere le differenze tra il Nerone che si prodigava per aiutare la plebe di Roma e quello che canta dopo averla bruciata aprirà ad un punto di vista completamente nuovo sulla storia romana e forse anche più interessante.


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