Durante gli scontri con i cartaginesi e i popoli iberici, nella seconda guerra punica, i romani entrarono in contatto con un’arma micidiale: il gladio. Scipione ne riconobbe subito la forza e decise di farlo diventare l’arma di ogni legionario.

Un’arma devastante

Le prime armi adottate dai romani erano infatti simili a quelle greche e celtiche con cui erano entrati in contatto: xiphos a lama dritta e makhaira a lama curva all’inizio, poi anche spade di derivazione italo-celtica. Infine, a partire dal III secolo a.C., iniziarono a usare un’arma mutuato dai celtiberi con cui combattevano in Hispania, il gladius hispaniensis. Si suppone che la parola stessa venga dal celtico attraverso l’etrusco, proprio in quel periodo, da Kladi(b)os o Kladimos, che significa spada. Il termine diventerà l’equivalente italiano di spada, tanto da indicare l’arma in sé e l’intera categoria di gladiatori (“combattenti armati di spada”).

Subito dopo la presa di Carthago Nova nel 209 a.C. Scipione, rimasto impressionato dall’arma, avrebbe preteso dai fabbri locali che ne producessero 100.000 pezzi. Tuttavia l’arma era forse già usata in Italia da tempo e parecchio diffusa, poiché diverse fonti tra cui Livio narrano che nel 361 a.C., durante la battaglia del fiume Anio, Tito Manlio prese un gladio per affrontare il barbaro celta che sconfisse e da cui prese il nome di Torquato (la Torque era un’ornamento militare gallico, che aveva spogliato allo sconfitto). Probabilmente i romani avevano cominciato a utilizzare l’arma dopo il sacco di Brenno, perfezionandola nel tempo:

«Imbracciato uno scudo da fante e impugnata una spada spagnola, si pose di fronte al Gallo.»

«Prende uno scudo di fanteria, si mette al fianco la spada ispanica adatta al combattimento a corpo a corpo.»

Claudio Quadrigario, Annali, FR 106; Livio, Ab Urbe condita libri – VII, 10

In ogni caso l’arma divenne l’unica utilizzata dai legionari nel corso del II secolo a.C., e tale resterà fino al II secolo d.C. (quando sarà progressivamente rimpiazzata dalla spatha). Portata sul fianco destro, per avere una rapida estrazione che non impacciasse lo scutum dopo il lancio del pilum, era lunga circa 60 cm in media, con una lama affilatissima e larga, fatta appositamente per pugnalare a morte. L’arma era talmente devastante che i macedoni rimasero inorriditi quando videro i loro morti, durante la seconda guerra macedonica, a Cinocefale, nel 197 a.C.:

«Quando [i macedoni] videro i corpi smembrati con la spada ispanica, le braccia staccate dalle spalle, le teste mozzate dal tronco, le viscere esposte ed altre orribili ferite […] un tremito di orrore corse tra i ranghi.»

Livio, Ab Urbe condita libri, XXXI, 34

Il modello ispanico, il primo, aveva praticamente sempre una lama di più di 60 cm, risultando tutt’altro che corto. Veniva utilizzato per colpi di punta micidiali, specialmente all’inguine, zona generalmente poco protetta e le cui ferite erano mortali. Successivamente, a partire dall’impero, vennero introdotti il modello Magonza e Pompei, leggermente più corti; il primo aveva una forma particolare con la lama ondeggiata, più stretta al centro e più larga in punta, mentre il secondo era semplicemente una versione più piccola dell’hispaniensis. Tuttavia l’arma si prestava anche al duello, come riporta sia il caso di Torquato, che dei centurioni Pullo e Voreno sotto Cesare:

«C’erano in quella legione due centurioni, due uomini coraggiosissimi, che già si avviavano a raggiungere i gradi più alti, Tito Pullone e Lucio Voreno. Erano in continua competizione tra di loro, per chi dei due sarebbe stato anteposto all’altro, e ogni anno lottavano con accesa rivalità per far carriera. Mentre si combatteva con grande accanimento sulle fortificazioni, Pullone disse: «Che aspetti Voreno? Che promozione vuoi avere come premio per il tuo coraggio? Questa è la giornata che deciderà delle nostre controversie». Detto questo, esce allo scoperto e irrompe dove più fitto è lo schieramento nemico. Neppure Voreno, allora, resta al coperto ma, temendo il giudizio degli altri, lo segue. Quasi addosso al nemico, Pullone lancia il giavellotto e trapassa uno dei loro che, staccatosi dal gruppo, correva ad affrontarlo. I nemici lo soccorrono esanime, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti lanciano frecce contro di lui, bloccandolo. Un’asta trapassa lo scudo di Pullone e si conficca nel balteo, spostando il fodero della spada e, mentre egli si trova impacciato e perde tempo nel tentativo di estrarre l’arma, viene circondato dai nemici. Il suo avversario, Voreno, si precipita a soccorrerlo nella difficile situazione. Tutta la massa dei nemici si volge allora contro Voreno, ritenendo l’altro trafitto dall’asta. Voreno si batte corpo a corpo con la spada e, ucciso un nemico, respinge gli altri di poco, ma mentre incalza con foga, cade scivolando in una buca. Circondato a sua volta, viene aiutato da Pullone e ambedue, dopo aver ucciso molti nemici e acquistato grande onore, riparano incolumi all’interno delle fortificazioni. Così la fortuna volle, nella contesa e nel combattimento, che, sebbene avversari, si recassero reciproco aiuto e si salvassero l’un l’altro la vita, e non si potesse stabilire quale dei due fosse il più coraggioso.»

cesare, de bello gallico, v, 44

Fine di un’arma

Alla fine il gladio fu sostituito da un’arma simile, ma più lunga. Nata infatti come variante di cavalleria del gladio (serviva infatti una spada più lunga per combattere a cavallo), la spatha divenne infine anche l’arma dei legionari romani. Non è ben chiaro come, perché ed esattamente quando la spatha abbia rimpiazzato del tutto il gladio, ma molte ipotesi a riguardo sono state fatte. Si può supporre che siano occorsi una serie di fattori concorrenti:

  • – una decadenza di addestramento, che permetteva l’utilizzo di un’arma che veniva più menata con fendenti che con rapide stoccate come il gladio;
  • – il maggiore afflusso di reclute germaniche nell’esercito avrebbe portato all’adozione di spathae più lunghe e armi ad asta come lance che avrebbero soppresso l’utilizzo combinato di pilum e gladio;
  • – un semplice cambio di moda a favore di armi differenti, che permettevano di tenere il nemico più lontano e quindi rischiare meno di essere feriti ma probabilmente anche di lanciare attacchi meno micidiali;
  • – un tentativo di opporsi con maggiore efficacia ad attacchi a cavallo e a combattimenti più in ordine sparso che in ranghi serrati.

Probabilmente tutte le opzioni messe insieme sono vere e spiegano anche il mutamento di modo di combattere dalla fine del II secolo d.C. che diviene sempre più falangitico, con la ripresa della lancia a sfavore del pilum, corredata da dardi più piccoli come lo spiculum o la plumbata e al progressivo abbandono nel III secolo di scutum rettangolare (per tornare a quello ovale) e lorica segmentata. Nel complesso il modo di combattere diviene più statico quando in formazione aperta e al contempo più flessibile nei piccoli scontri, riflettendo l’ambivalenza di necessità cui andava incontro l’impero nel difficile periodo di crisi del III secolo. Al contempo non è da escludere un peggiore addestramento e l’influenza di reclute dalle zone di confine, anche perchè l’equipaggiamento tende a uniformarsi sempre più con quello degli ausiliari visti nella colonna di Traiano.

Per approfondimenti vedi l’articolo sulla spatha: https://storieromane.altervista.org/la-spatha/

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Il gladio – il terrore dei nemici di Roma
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