Nel mese di settembre del 9 d.C., nell’arco di tre giorni, si consuma uno dei maggiori disastri militari della storia romana: l’imboscata della selva di Teutoburgo. Il luogo della battaglia è stato identificato nei pressi di Kalkriese, in Bassa Sassonia, grazie al ritrovamento di numerose monete, armi e armature romane.

La lorica segmentata

A Kalkriese sono stati rinvenuti i più antichi esemplari di lorica segmentata, l’armatura più diffusa che raffigura il legionario romano in epoca moderna. L’armatura fu adottata a ridosso della nascita di Cristo e divenne la principale armatura legionaria per i due secoli seguenti, sparendo completamente nel corso del III secolo. Il motivo della sua scomparsa è ignoto, in quanto teoricamente migliore delle loricae hamatae (cotte di maglia) e loricae squamatae (corazze a squame), uniche armature usate a partire dalla metà del III secolo d.C. Così come la scomparsa dello scutum rettangolare, scomparso anch’esso nel III secolo. Il motivo è da ricondursi forse a tattiche di combattimento differenti (meno battaglie campali e più scaramucce) e/o a costi di produzione/manutenzione troppo elevati per le casse tardoantiche. Test moderni hanno dimostrato che la lorica segmentata offriva un’ottima protezione da fendenti (il colpo si disperdeva sui segmenti adiacenti) e permetteva nella quasi totalità dei casi di respingere le frecce. Dunque la sua invenzione pare da collegarsi a un’esortazione di Cicerone dopo la sconfitta di Carre del 53 a.C., in cui i cavalieri parti avevano seppellito di frecce i legionari romani: “Contra equitum parthum negant ullam armaturam meliorem inveniri posse” (“negano che si possa inventare un’armatura migliore contro i cavalieri parti”).

La conquista della Germania

Dopo la fine delle guerre civili, Augusto aveva espanso l’impero nei territori dei barbari: Norico, Pannonia, Illirico. Tra il 12 a.C. e il 9 d.C., dopo una campagna militare ventennale la Germania tra il Reno e l’Elba era considerata dai romani come una nuova provincia acquisita.

L’obiettivo era probabilmente quello di ridurre notevolmente la linea di confine, rendendolo più facile da difendere: per questo venne inviato prima Marco Vipsanio Agrippa e poi Druso Maggiore e Tiberio, che presero possesso della nuova provincia.

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A governare la regione, nel 7 d.C., venne inviato un senatore con molta esperienza (aveva brillantemente governato la provincia di Siria): Publio Quintilio Varo. Egli commise l’errore di considerare la Germania come una provincia a tutti gli effetti, raccogliendo tasse e amministrando la legge romana ovunque, nonostante le rimostranze dei germani.

« […] i soldati romani si trovavano là [in Germania] a svernare, e delle città stavano per essere fondate, mentre i barbari si stavano adattando al nuovo tenore di vita, frequentavano le piazze e si ritrovavano pacificamente […] non avevano tuttavia dimenticato i loro antichi costumi […] ma perdevano per strada progressivamente le loro tradizioni […] ma quando Varo assunse il comando dell’esercito che si trovava in Germania […] li forzò ad adeguarsi ad un cambiamento troppo violento, imponendo loro ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e costringendoli ad una tassazione esagerata, come accade per gli stati sottomessi. I Germani non tollerarono questa situazione, poiché i loro capi miravano a ripristinare l’antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero. Pur tuttavia non si ribellarono apertamente […] »

Cassio Dione, Storia romana, LVI,18)

Quest’ultimi si raccolsero attorno al secondo in comando dei romani: Arminio, cavaliere romano di nascita cherusco, portato come ostaggio a Roma in giovane età insieme al fratello Flavo.

Non è chiaro per quale motivo Arminio abbia deciso di rinnegare la sua romanità e tradire Varo, ma quel che è certo è che riuscì a coalizzare attorno a sè molte tribù germaniche.

Il cherusco era cavaliere romano, il massimo grado possibile all’epoca per la sua nascita germanica: forse sarebbe potuto perfino diventare senatore (Cesare immise molti galli in senato, mentre Ottaviano, facendosi portatore della tradizione, riportò il senato di 900 membri di Cesare al tradizionale 600, espellendo molti nuovi arrivati).

Essere cavaliere significava possedere un patrimonio di almeno 400.000 sesterzi: Arminio era un romano decisamente abbiente, sicuramente attorniato di schiavi.

L’imboscata

Arminio finse una ribellione, proprio quando i romani stavano per ritornare negli accampamenti invernali. Il governatore romano era stato avvisato della congiura ma non vi prestò attenzione:

« […] Segeste, un uomo di quel popolo [i Cherusci] rimasto fedele ai Romani, insisteva che i congiurati venissero incatenati. Ma il fato aveva preso il sopravvento ed aveva offuscato l’intelligenza di Varo […] egli riteneva che tale manifestazione di fedeltà nei suoi riguardi [da parte di Arminio] fosse una prova delle sue qualità […] »

« [Varo] pose la sua fiducia su entrambi [Arminio ed il padre Sigimero], e poiché non si aspettava nessuna aggressione, non solo non credette a tutti quelli che sospettavano del tradimento e che lo invitavano a guardarsi alle spalle, anzi li rimproverò per aver creato un inutile clima di tensione e di aver calunniato i Germani […] »

(Velleio Patercolo, Storia romana, II, 118; Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 19)
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Varo, accompagnato da Arminio, marciò verso ovest, ma fu costretto a mutare il percorso, finendo nella foresta di Teutoburgo, esattamente dove voleva il cavaliere cherusco, che era consapevole di non poter battere i romani in campo aperto.

Unico caso della storia in cui un comandante è al comando di entrambi gli eserciti contrapposti, Arminio fece lanciare un attacco alla colonna romana e con questa scusa si allontanò per unirsi ai barbari.

« […] il piano procedeva come stabilito. [Arminio e i suoi Germani scortarono Varo] […] e dopo aver ottenuto il permesso di fermarsi ad organizzare le forze alleate per poi andargli in aiuto, presero il comando delle truppe [quelle nascoste nella selva di Teutoburgo], le quali erano già pronte sul luogo stabilito [per l’agguato] […] dopo di ciò le singole tribù uccisero i soldati che erano stati lasciati a presidio dei loro territori […] e poi assalirono Varo che si trovava nel mezzo di una foresta da cui era difficile uscire […] e là […] si rivelarono nemici […] »

(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 19)

La colonna romana, distesa su molti chilometri e formata da tre legioni e diversi reparti ausiliari, venne attaccata puntualmente e ripetutamente, senza che i romani potessero opporre una vera e propria resistenza, non potendosi schierare a battaglia.

« […] i barbari, grazie alla loro ottima conoscenza dei sentieri, d’improvviso circondarono i Romani con un’azione preordinata, muovendosi all’interno della foresta ed in un primo momento li colpirono da lontano [evidentemente con un continuo lancio di giavellotti, aste e frecce] ma successivamente, poiché nessuno si difendeva e molti erano stati feriti, li assalirono. I Romani, infatti, avanzavano in modo disordinato nel loro schieramento, con i carri e soprattutto con gli uomini che non avevano indossato l’armamento necessario, e poiché non potevano raggrupparsi [a causa del terreno sconnesso e degli spazi ridotti del sentiero che seguivano] oltre ad essere numericamente inferiori rispetto ai Germani che si gettavano nella mischia contro di loro, subivano molte perdite senza riuscire ad infliggerne altrettante […] »

(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 20, 4-5)

Tuttavia, nonostante questo, i romani resistettero per tre giorni. Alla fine del primo giorno, sebbene le perdite fossero numerose, Varo riuscì ad accamparsi su un’altura.

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Ma i romani erano ormai accerchiati e nel mezzo della foresta: durante il secondo giorno Varo tentò di portare l’esercito fuori dalla selva, dopo aver abbandonato tutto meno che l’indispensabile e tentato di serrare i ranghi. I romani però non riuscivano a dispiegare i reparti nella foresta e finivano per darsi fastidio a vicenda mentre i germani li attaccavano.

Il terzo giorno fu la fine: ripreso a piovere copiosamente e decimati, i romani furono attaccati senza tregua. Varo si tolse la vita, mentre i sopravvissuti che avevano quasi raggiunto l’uscita della foresta furono quasi del tutto massacrati dai germani.

« [… Quintilio Varo] si mostrò più coraggioso nell’uccidersi che nel combattere […] e si trafisse con la spada […] »

(Velleio Patercolo, Storia Romana, II, 119, 3)

Per i sopravvissuti la fine fu spesso tremenda; pochissimi si salvarono e molti tentarono la fuga:

« […] Lucio Eggio diede un esempio di valore al contrario di Ceionio che […] propose la resa e preferì morire torturato piuttosto che in battaglia […] Vala Numonio, legato di Varo, responsabile di un fatto crudele, abbandonando la fanteria senza l’appoggio della cavalleria, poiché provò a fuggire con le ali di cavalleria verso il Reno, ma il destino vendicò questo suo gesto vigliacco […] e morì da traditore […] »

(Velleio Patercolo, Storia Romana, II, 119, 4)

« […] Poiché i Germani sfogavano la loro crudeltà sui prigionieri romani, Caldo Celio [caduto prigioniero], un giovane degno della nobiltà della sua famiglia, compì un gesto straordinario. Afferrate le catene che lo tenevano legato, se le diede sulla testa con tale violenza da morire velocemente per la fuoriuscita di copioso sangue e delle cervella […] »

(Velleio Patercolo, Storia Romana, II, 120, 6)

« […] nulla di più cruento di quel massacro fra le paludi e nelle foreste […] ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua […] »

(Floro, Epitome de T. Livio Bellorum omnium annorum DCC Libri duo, II, 36-37)

La pazzia di Augusto

Tre legioni (la XVII, XVIII e XIX) furono sterminate e mai più ricostruite. Quando la notizia giunse a Roma Augusto perse completamente la testa, sia per la rabbia sia per il timore di un’invasione germanica.

Narra Svetonio che Augusto prendesse a testate il muro gridando contro Varo:

« Quando giunse la notizia… dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: “Varo rendimi le mie legioni!”. Dicono anche che considerò l’anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza”. »

(Svetonio, Vite dei dodici Cesari II, 23)

« … Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l’Italia e la stessa Roma. »

(Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 23, 1)

Inoltre molti germani formavano la guardia pretoriana e la guardia del corpo germanica dell’imperatore (i germani corporis custodes): infatti a partire da Cesare si era presa l’abitudine di attorniarsi di guardie del corpo germaniche.

« … Augusto, poiché a Roma vi era un numero elevato di Galli e Germani… nella Guardia Pretoriana… temendo che potessero insorgere… li mandò in esilio in diverse isole, mentre a coloro che erano privi di armi ordinò di allontanarsi dalla città…. »

(Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 23, 4)

Alla morte di Augusto, nel 14 d.C., l’imperatore Tiberio inviò il figliastro Germanico a recuperare le aquile e sconfiggere Arminio: Germanico recuperò due delle tre aquile e inflisse una sconfitta devastante ad Arminio, ad Idistaviso (un luogo che non sappiamo identificare con certezza). Il giorno prima della battaglia Arminio e il fratello Flavo, che militava nell’esercito di Germanico, per poco non vennero alle mani:

“[…] (Arminio) chiese al fratello l’origine di quello sfregio sul volto. Quest’ultimo gli riferì il luogo e la battaglia. Arminio chiese ancora quale compenso avesse ricevuto. Flavo rammentò lo stipendio accresciuto, la collana, la corona e gli altri doni militari, mentre Arminio irrideva la sua servitù a Roma per quegli insignificanti e vili compensi ricevuti […] continuarono a parlare, Flavo esaltando la grandezza di Roma, la potenza di Cesare, la severità contro i vinti, la clemenza verso coloro che si arrendevano, la generosità verso la moglie e il figlio dello stesso Arminio, trattati non come nemici. Arminio, dal canto suo, ricordando la religione della patria, l’antica libertà, gli dei della nazione germanica, la madre di entrambi, alleata a lui nelle preghiere […]. A poco a poco passati ad insultarsi, poco mancò che si gettassero l’uno contro l’altro”.

(Tacito, Annales II, 9-10)

Arminio tuttavia sopravvisse, ma morì un paio di anni dopo. Riguardo la sorte di Arminio abbiamo il racconto di Tacito:

« Apprendo dagli storici e dai senatori contemporanei agli eventi che in Senato fu letta una lettera di Adgandestrio, capo dei Catti, con la quale prometteva la morte di Arminio se gli fosse stato inviato un veleno adatto all’assassinio. Gli fu risposto che il popolo romano si vendicava dei suoi nemici non con la frode o con trame occulte, ma apertamente e con le armi […] del resto Arminio, aspirando al regno mentre i Romani si stavano ritirando a seguito della cacciata di Maroboduo, ebbe a suo sfavore l’amore per la libertà del suo popolo, e assalito con le armi mentre combatteva con esito incerto, cadde tradito dai suoi collaboratori. Indubbiamente fu il liberatore della Germania, uno che ingaggiò guerra non al popolo romano ai suoi inizi, come altri re e comandanti, ma ad un impero nel suo massimo splendore. Ebbe fortuna alterna in battaglia, ma non fu vinto in guerra. Visse trentasette anni e per dodici fu potente. Anche ora è cantato nelle saghe dei barbari, ignorato nelle storie dei Greci che ammirano solo le proprie imprese, da noi Romani non è celebrato ancora come si dovrebbe, noi che mentre esaltiamo l’antichità non badiamo ai fatti recenti. »

(Tacito, Annales II, 88)

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Teutoburgo: una sconfitta devastante
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