Tiberio aveva deciso di seguire gli insegnamenti di Augusto e quindi di non espandere la frontiera, ma di mantenere il limes. Perciò, dopo un suo primo intervento tra il 10 e 11 d.C., volto a prevenire invasioni come quelle dei cimbri e dei teutoni un secolo prima, una volta diventato imperatore nel 14, fu il nipote Germanico (figlio di suo fratello Druso maggiore) a terminare l’opera. Si trovava infatti in Gallia a raccogliere i dati del censimento voluto da Augusto quando seppe della morte di quest’ultimo. Mossosi a sedare la rivolta delle legioni germaniche dopo la notizia della morte del principe, colse l’occasione per intraprendere una campagna contro i germani.

«Tiberio Cesare viene inviato in Germania, e qui rafforza le Gallie, prepara e riorganizza gli eserciti, fortifica i presidi e avendo coscienza dei propri mezzi, non timoroso di un nemico che minacciava l’Italia con un’invasione simile a quella dei Cimbri e dei Teutoni, attraversava il Reno con l’esercito e passava al contrattacco, mentre al padre Augusto ed alla patria sarebbe bastato di tenersi sulla difensiva. Tiberio avanza così in territorio germano, si apre nuove strade, devasta campi, brucia case, manda in fuga quanti lo affrontano e con grandissima gloria torna ai quartieri d’inverno senza perdere nessuno di quanti aveva condotto al di là del Reno […] abbatté le forze nemiche in Germania, con spedizioni navali e terrestri, e placate più con la fermezza che con i castighi la pericolosissima situazione nella Gallia e la ribellione sorta tra la popolazione degli Allobrogi»

VELLEIO PATERCOLO, STORIA DI ROMA, II, 120-1

Due visioni di cittadinanza

La campagna di Germanico procedeva bene e decise di passare all’attacco, attraversando il Reno nella zona occupata dei batavi, andando incontro alle forze che avevano messo insieme i barbari dell’ex cavaliere romano. Prima della battaglia Arminio chiese di parlare col fratello Flavo (“il biondo”), che combatteva ancora per i romani e in battaglia aveva perso un occhio. L’incontro, approvato da Germanico, si fece in riva al fiume Visurgi, che li separava:

«Tra i Romani e i Cherusci scorreva il fiume Visurgi. Arminio con gli altri capi si fermò su la riva e domandò se Cesare era giunto. Gli fu risposto che era già lì; allora pregò che gli fosse consentito un colloquio con il fratello. Questi, di nome Flavio, militava nel nostro esercito ed era noto per la sua lealtà. Pochi anni prima, mentre combatteva agli ordini di Tiberio, per una ferita aveva perduto un occhio. Ricevuta l’autorizzazione, si fa avanti e Arminio lo saluta; poi fa allontanare la scorta e chiede che vadano via anche gli arcieri, schierati lungo la riva. Non appena se ne furono andati, Arminio domanda al fratello come mai ha uno sfregio sul volto. Questi allora gli riferisce il luogo e la battaglia dove è avvenuto e Arminio gli chiede quale compenso abbia ricevuto; Flavio gli comunica l’aumento di stipendio, il bracciale, la corona e le altre decorazioni militari ottenute; e Arminio schernisce la grama mercede avuta per essere schiavo. A questo punto si mettono ad altercare uno contro l’altro: uno esalta la grandezza di Roma, la potenza dell’imperatore, le gravi pene inflitte ai vinti, la clemenza accordata agli arresi; e gli assicura che sua moglie e suo figlio non sono trattati da nemici. L’altro ricorda la santità della patria, la libertà avita, gli dèi tutelari della Germania e la madre, che si unisce alle sue preghiere; e lo ammonisce a non disertare, a non tradire i suoi. Poco a poco scesero alle ingiurie e poco mancò che si azzuffassero e neppure il fiume che scorreva tra loro avrebbe costituito un ostacolo, se non fosse accorso Stertinio a calmare Flavio, il quale, infuriato, chiedeva armi e un cavallo. Sull’altra riva si scorgeva Arminio che in atteggiamento minaccioso ci sfidava a battaglia; nel suo parlare frammischiava parecchi vocaboli in latino, poiché aveva militato negli accampamenti romani come comandante dei suoi connazionali.»

TACITO, ANNALES II, 9-10

La battaglia fu comunque un trionfo per i romani. Cariovaldo, capo dei batavi, alleati dei romani, una volta attraversato il fiume, si lanciò all’inseguimento dei cherusci, senza sospettare un’imboscata: infatti erano fuggiti dalla pianura per evitare lo scontro in campo aperto. L’attacco a sorpresa riuscì e i batavi si diedero alla fuga, senza successo, poiché ormai erano circondati. Tentarono di sfondare l’accerchiamento, ma Cariovaldo fu colpito e i batavi si salvarono solo grazie all’intervento della cavalleria di Stertino, che misero in salvo i sopravvissuti.

Nel frattempo Germanico, varcato il Visurgi, venne a sapere da un disertore che Arminio avrebbe attaccato l’accampamento di notte; perciò schierò l’esercito a battaglia nel campo e quando questi attaccarono vennero respinti. Il giorno seguente, Arminio, incalzato da Germanico, accettò di combattere in campo aperto, nella piana di Idistaviso, collocata tra il fiume Visurgi e le colline; i germani avevano una fitta foresta alle loro spalle. Era il 16 d.C. Germanico dispose l’esercito seguendo l’ordine di marcia, con in prima linea gli ausiliari galli e germani, poi gli arcieri, quattro legioni, due coorti di pretoriani con ai fianchi la cavalleria, poi altre quattro legioni e infine la fanteria leggera e gli arcieri a cavallo e le altre coorti ausiliarie. In questo modo, adottando uno schieramento simmetrico, i romani avrebbero potuto respingere un attacco da ogni direzione.

cherusci furono i primi ad attaccare, lanciandosi dai colli. Germanico ordinò alla cavalleria di attaccarli sul fianco e a Stertino di lanciare l’attacco alle spalle, mentre lui sarebbe giunto per chiuderli in una morsa. I germani, non reggendo l’urto delle legioni, si diedero immediatamente alla fuga, mentre Arminio urlava per tentare di fermarli. Combatté come un leone ma alla fine fu costretto a fuggire, dopo essersi imbrattato il viso di sangue per non essere riconosciuto.

Arminio, per suo calcolo personale, aveva preferito essere a capo di una tribù germanica che essere un cavaliere romano e forse, in futuro, un senatore. Arminio era stato inviato in gioventù a Roma come ostaggio, non era un barbaro appena romanizzato. I due avevano dunque una visione opposta di Roma, una integratrice e l’altra di oppressore. Tale visione sarebbe stata ribadita nel celebre discorso di Calgaco qualche anno dopo:

«Ogni volta che io cerco di guardare dentro alle cause della guerra e al destino che ci sovrasta, sento crescere la fiducia che questa giornata e il vostro accordo saranno l’inizio della libertà per tutta la Britannia. Perché tutti insieme vi siete qui radunati, perché non siete ancora contaminati dalla schiavitù, perché oltre noi non esiste alcuna terra. Nemmeno il mare è sicuro da quando ci minaccia la flotta romana. E dunque la guerra dichiarata è sì onorevole per i forti ma è anche il partito più sicuro per i vigliacchi. Le precedenti battaglie, che ci hanno visto combattere con esito alterno contro i Romani, lasciavano nelle nostre mani ogni speranza di auto, perché noi, i più nobili di tutta la Britannia (per questo abbiamo sede nei penetrali di questa terra e nemmeno vediamo i litorali degli schiavi), perfino gli occhi avevamo incontaminati dal contatto con la tirannide. Il nostro vivere appartati e l’oscurità della nostra fama hanno difeso fino a oggi noi, estremi abitatori delle terre e della libertà; ora il confine estremo della Britannia si apre e solo ciò che è ignoto passa per magnifico. Ma nessun popolo ha sede oltre noi, nulla c’è se non scogli o flutti: i Romani sono ancora più ostili e dalla loro superbia non c’è scampo nemmeno con l’ossequio e la sottomissione. Predatori del mondo intero: quando alle loro ruberie vennero meno le terre, si misero a frugare il mare. Se il nemico è ricco, eccoli avidi; se è povero, diventano arroganti. Né Oriente né Occidente potranno mai saziarli: soli fra tutti gli uomini riescono a essere ugualmente avidi della ricchezza e della povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace. 

TACITO, AGRICOLA, 29-32

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Il confronto tra Arminio e il fratello Flavo
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