A partire dal VII secolo i greci avevano inventato un nuovo modo di combattere, quello falangitico: un gruppo di cittadini, polites, coesi, combatteva con un armamento pesante, fatto principalmente di armatura di bronzo o di lino, un grande scudo circolare detto aspis od oplon (ἀσπίς o ὅπλον, lo scudo argivo) di circa 1 metro di diametro, fatto in legno ma protetto ai bordi con del bronzo, schinieri, elmo avvolgente, lancia e spada. In pratica una sorta di rullo compressore.

Tale tattica, che permise ai greci di respingere i persiani, venne affinata dai macedoni, che alleggerirono in parte l’equipaggiamento difensivo, dotando i falangiti di uno scudo più piccolo: infatti nel tempo i grossi scudi fecero spazio sempre più a piccoli pelta (πέλτη), in origine in dotazione ai peltasti, truppe leggere che scagliavano dardi e ripiegavano:

«… così i fanti che erano chiamati opliti per via del loro pesante scudo, vengono ora chiamati peltasti per la pelta che portano.»

Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, 15.44.3

Inoltre Filippo II di Macedonia (359-336 a.C.) perfezionò questo nuovo modo di combattere, non semplicemente alleggerendo l’equipaggiamento, ma suddividendo la fanteria pesante in due categorie. La prima era quella degli hypaspistai, “i portatori di scudi dei compagni” (ὑπασπισταὶ τῶν ἑταίρων), che portava il grosso aspis falangitico e combatteva in modo simile alla falange tradizionale. Gli hypaspistai erano raggruppati in chiliarchie di circa 1.000 uomini. A questi si affiancò il nerbo del nuovo esercito falangitico (τὰξις), i pezeteri, che erano dotati di lunghissime sarisse, delle lance lunghe più di 5 metri, che si reggevano con due mani. Anche la formazione era diversa, poichè la tradizionale profondità di 8 file della falange lasciava spazio a quella da 16, che era la stessa in lunghezza, per un totale di 256 uomini, che formavano un achiliarchia più piccola degli hypaspistai (i quali coprivano i fianchi dei pezeteri insieme alle altre truppe ausiliarie). A questa forza inesorabile si aggiungeva poi la fanteria leggera, gli arcieri cretesi e la temibile cavalleria tessalica e quella dei compagni del re (eteri), capace di farsi valere anche nel corpo a corpo e utile per attaccare il nemico sui fianchi mentre era impegnato con la falange.

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Un nuovo modo di combattere

La falange, rimasta regina dei campi di battaglia per il successivo secolo e mezzo, entrò in crisi quando i diadochi entrarono in contatto con i romani. La prima grande sconfitta fu quella di Cinocefale del 197 a.C., in cui i romani sfruttarono i varchi tra la falange ancora non schierata per spezzarla. Quando Antioco III, re seleucide, decise di intervenire nelle controversie tra le città greche e la lega etolica, nel 192 a.C., i romani decisero di bloccare i suoi piani di espansione, sconfiggendolo alle Termpoli nel 191 a.C., grazie anche ad un attacco alle spalle guidato da Catone il Censore.

La vittoria completa l’avrà però solo Scipione Asiatico, fratello dell’Africano, a Magnesia in Asia Minore, nel 189 a.C. Antioco, probabilmente convinto dalla superiorità numerica, accettò battaglia: i romani schierarono le legioni al centro, al lato sinistro, protetta dal fiume Ermo, la cavalleria, mentre sul fianco destro stavano le truppe leggere comandate dal re Eumene II di Pergamo e tutta la cavalleria rimasta. Nelle retrovie c’erano sedici elefanti e dietro di loro i triari. I seleucidi oltre alle falangi e agli alleati greci potevano vantare circa 10.000 cavalieri (e anche catafratti) e 20.000 truppe da tiro e leggere.

I seleucidi posero davanti le truppe leggere, dietro la falange e ai lati la cavalleria, mentre gli elefanti erano posti tra i reparti della falange. Antioco prese il comando dell’ala destra con i galati e i cavalieri catafratti, mentre a sinistra stava suo figlio Seleuco con cavalieri (anche catafratti), carri falcati, arcieri arabi su dromedari e altri ausiliari. Mentre Antioco sfondò sul lato che comandava, sul lato opposto, nonostante la netta superiorità, gli arcieri e frombolieri romani causarono il caos, mandando in rotta i carri falcati che scompaginarono il lato sinistro seleucida. Attaccati anche dalla cavalleria romana il fianco di Seleuco si diede alla fuga, lasciando completamente scoperta la falange, che stretta tra le legioni e i lanci di pila, frecce, pietre e l’attacco della cavalleria venne distrutta quando anche gli elefanti si imbizzarrirono e cominciarono a seminare il caos. La battaglia fu un massacro: i romani riportavano di oltre 50.000 morti tra le fila nemiche e soltano 350 romani caduti.

Pidna

La battaglia di Pidna segnò il definitivo tramonto della falange macedone a vantaggio della legione manipolare romana. I romani, comandati da Lucio Emilio Paolo Macedonico (figlio del console morto a Canne), vinsero il re macedone Perseo, che aveva tentato di ristabilire il potere ellenico. Il 22 giugno del 168 a.C. i romani affrontavano i macedoni nella battaglia che segnerà la terza guerra macedonica (171-168 a.C.). Perseo aveva mire espansionistiche nei Balcani ed era venuto alle armi con i romani, che non potevano tollerarlo. I due eserciti si incontrarono infine a Pidna.

Nello scontro finale Perseo lanciò l’attacco, con la falange macedone che cominciò a pressare i romani, i quali non poterono reggere l’urto. Arretrando in modo ordinato su una montagna però i romani poterono passare al contrattacco: Emilio Paolo si rese conto che lo schieramento nemico si fratturava in più punti e in questi lanciò i manipoli. I romani, più agili e abituati a combattere su terreni accidentati e in spazi ristretti, massacrarono coi loro gladi ispaniensi i macedoni, impossibilitati dalle lunghe sarisse. La battaglia si trasformò in una carneficina, con i gladi che facero letteralmente a pezzi i macedoni inermi. Andati in rotta (20.000 furono uccisi e 10.000 catturati), furono attaccati poi dalla flotta romana al largo, che calò le ancore e procedette al massacro, mentre Emilio Paolo dava ordine ai suoi elefanti di caricare i macedoni in fuga. Il regno di Macedonia era distrutto; fu diviso in 4 repubbliche e, dopo un’insurrezione vent’anni dopo, la Macedonia venne annessa come provincia alla metà del II secolo a.C. La quantità d’oro conquistata sarà tale che da allora, fino al III secolo d.C., i romani (e poi gli italici) saranno esentati da ogni imposta diretta, che graverà sui soli provinciali.

Dal manipolo alla coorte

L’idea tattica alla base della legione manipolare era che quando una linea si stancava subentrava la successiva, con hastati e principes ad alternarsi, mentre i triarii subentravano solo in caso di assoluta necessità:

«Quando l’esercito aveva assunto questo schieramento, gli hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i principes li accoglievano negli intervalli tra loro. […] i triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l’alto, quasi fossero una palizzata… Qualora anche i principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai triarii. Da qui l’espressione in latino “Res ad Triarios rediit” (“essere ridotti ai Triarii”), quando si è in difficoltà.»

T. LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI VIII, 8, 9-12

Il processo di costruzione dell’esercito manipolare, passato per le guerre sannitiche, da cui i romani avevano sicuramente preso spunto, tanto nelle armi quanto nelle tattiche (scuta, pila, formazione meno falangitica), passò poi anche nella costruzione di castra, ossia accampamenti, che avevano un reticolo sempre ripetuto, di forma rettangolare. Anche lì i romani hanno preso spunto da altri:

«Pirro, re dell’Epiro, istituì per primo l’utilizzo di raccogliere l’intero esercito all’interno di una stessa struttura difensiva. I Romani, quindi, che lo avevano sconfitto ai Campi Ausini nei pressi di Malevento, una volta occupato il suo campo militare ed osservata la sua struttura, arrivarono a tracciare con gradualità quel campo che oggi a noi è noto.»

SESTO GIULIO FRONTINO, STRATEGEMATA, IX, 1,14

Nel complesso l’esercito manipolare si dimostrò inizialmente incapace, durante la seconda guerra punica, di adattarsi alle tattiche più evolute di Annibale, per poi prendere spunto e adattarsi. Da lì in poi i comandanti romani saranno in grado di giocare con i manipoli, muovendoli in modo creativo sul campo di battaglia, uscendo dal tradizionale schema di alternanza delle linee e scontro frontale, passando invece per accerchiamenti e manovre più complesse; ad esempio a Cinocefale, nel 197 a.C., i manipoli romani, muovendosi in modo più libero, riuscirono ad avere la meglio sulla terribile falange macedone di Filippo V.

Fu allora che, vinta la Macedonia Tito Quinzio Flaminino si mosse in Grecia, dove venne accolto come un liberatore. Presentandosi ai giochi istmici di Corinto del 196 a.C. tenne un solenne discorso in cui promuoveva la liberazione dell’Ellade dal dominatore macedone; tuttavia pochi anni dopo, vinti nuovamente i macedoni a Pidna, i romani avrebbero annesso la Grecia e distrutto anche Corinto nel 146 a.C. Nonostante gli anatemi di Catone il Censore, realizzatisi nella distruzione di Cartagine, quelli relativi al pericolo della cultura ellenica rimasero inascoltati (andava dicendo che i medici greci a Roma sotto mentite spoglie ammazzavano i romani paventando cause naturali e decorsi naturali della malattia): la cultura greca avrebbe soggiogato i romani, tanto da far dire ad Orazio che la Grecia aveva portato l’arte e la cultura nel Lazio agreste: “Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio” (Orazio, Epistole, Il, 1, 156). Poco tempo dopo Virgilio celebrava nella sua Eneide l’eroica (e greca) nascita di Roma, a partire dal troiano Enea, antenato di Cesare e Ottaviano Augusto, che dunque fondavano l’impero romano anche sul prestigio eroico delle gesta degli antenati.

La coorte: un’evoluzione del manipolo

Combattendo in Spagna, in condizioni difficili e spesso tatticamente sconosciute ai romani, Scipione si rese conto di dover modificare qualcosa. Fece adottare ai suoi soldati una spada iberica che sembrava micidiale, il gladio (i cui primi modelli sono appunto chiamati “hispaniensis“), che se usato correttamente, di punta, provocava ferite micidiali. In secondo luogo per affrontare episodi di guerriglia e di bassa intensità decise di appropriarsi dell’unità tattica della coorte, usata fino ad allora dai soli socii italici.

La coorte, che contava circa 500 uomini, raggruppava in sé i tre manipoli di hastati, principes e triarii, permettendo dunque una maggiore flessibilità tattica: infatti non era usata solamente in azioni secondarie, ma anche sul campo di battaglia principale. Tuttavia perchè questo divenisse la norma bisognerà attendere la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo a.C. Ma i semi erano ormai piantati e i romani cominciavano a comprendere l’importanza della flessibilità tattica e di azioni fuori dagli schemi. Da allora infatti si comincerà ad uscire dagli schemi della classica azione di hastati-principes-triarii, per passare ad azioni più complesse, come per esempio usare i triarii per fermare la cavalleria o staccare principes e/o triarii per compiere un aggiramento su un fianco o rispondere ad un tentativo di aggiramento.

Per giungere alla piena adozione della coorte si dovette attendere la riforma dell’esercito di Gaio Mario, i cui presupposti erano già stati lanciati dai Gracchi. Il nuovo esercito, formato da capite censi, ovvero nullatenenti, non disponeva di equipaggiamento (ormai già fornito dallo stato da qualche decennio e quindi già in parte uniformato) ed era inquadrato direttamente in coorti, essendo venuti meno i presupposti della leva in base al censo (mentre permaneva questa divisione dei comizi, dove le prime 98 centurie più ricche avevano il potere di decidere nei comizi centuriati, avendo la maggioranza assoluta essendo 193 in totale; non solo, le 18 centurie di cavalieri e 80 della prima classe votavano per prime).

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Il tramonto della falange macedone
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