Dopo l’incredibile vittoria di Farsalo nel 48 a.C., contro ogni pronostico, Cesare inseguì Pompeo in oriente, ma non riuscì a raggiungerlo prima che Tolomeo XIII lo uccidesse, pensando di fare un favore al vincitore. Racconta Cassio Dione che Cesare rimase disgustato:

«Cesare dunque, avendo visto la testa di Pompeo, si mise a piangere e si lamentò, chiamandolo cittadino e genero, ed enumerando tutto quanto un tempo si erano dati in cambio l’uno con l’altro. Disse che non c’era modo di esser debitore a quelli che lo avevano ucciso di una qualche gratitudine, anzi li accusava, e ordinò ad alcuni (del seguito) di adornarla, di disporla convenientemente e di seppellirla»

Plutarco aggiunge che il romano:

«… si girò via con ripugnanza, come da un assassino; e quando ricevette l’anello con il sigillo di Pompeo su cui era inciso un leone che tiene una spada nelle sue zampe, scoppiò in lacrime.»

L’ultima battaglia del divo Giulio

Sconfitta la fazione di Tolomeo e messa sul trono la sorella di lui Cleopatra, con cui intrattenne una relazione, Cesare si mosse in Asia Minore, dove Farnace re del Ponto, figlio di Mitridate, cercava di espandersi, vincendolo nella battaglia di Zela, in seguito alla quale coniò la celebre frase “veni vidi vici”. Mossosi poi verso l’Africa vinse i repubblicani comandati da Scipione Metello a Tapso nel 46 a.C. e poco dopo si suicidò anche Catone Uticense a Utica. Restava ormai solo la Spagna, dove sopravvivevano i fedelissimi di Pompeo, comandati dal figlio maggiore Gneo Pompeo e Tito Labieno, ex luogotenente di Cesare nelle guerre galliche che lo aveva già affrontato dalla parte pompeiana a Farsalo e in Africa. I due eserciti si trovarono nei pressi di Munda, l’odierna Osuna:

«Tra i due accampamenti vi era una pianura di circa cinque miglia così che le truppe di Pompeo erano difese da due cose: dalla città e dalla posizione elevata del luogo. Da qui si stendeva vicina e in linea diritta la pianura. La precedeva un corso d’acqua che rendeva assai difficile il passaggio poiché sulla riva destra scorreva in un suolo paludoso e pieno di voragini. Perciò Cesare quando vide lo schieramento nemico, non ebbe dubbio che gli avversari venissero a combattere in campo aperto in mezzo alla pianura. Inoltre questo era ben visibile per tutti. Si aggiungeva che mentre il luogo era attraente per la distesa della pianura, il giorno era sereno e illuminato dal sole, così che il momento appariva il più bello e il più desiderabile che gli dèi immortali avessero dato per attaccar battaglia. I nostri ne erano lieti; qualcuno però temeva anche, perché in quel luogo si dovevano decidere le sorti di tutti, cosicché era incerto ciò che il caso poteva portare di lì a un’ora. Pertanto i nostri mossero al combattimento e stimavamo che altrettanto avrebbero fatto gli avversari. Essi invece non osavano allontanarsi troppo dalle fortificazioni della città, in cui sapevano di avere come un muro di difesa [contro gli avversari]. Intanto i nostri avanzarono. Talvolta il luogo pianeggiante invitava gli avversari a sfruttare tale situazione per la vittoria; tuttavia non abbandonavano la loro abitudine di non allontanarsi dal luogo elevato o dalla città. Ed anche quando i nostri con passo costante si avvicinavano sempre più al corso d’acqua, gli avversari non cessarono di proteggersi con la posizione elevata. Lo schieramento (di Pompeo) era formato di tredici legioni, ed era protetto ai lati dalla cavalleria e da seimila armati alla leggera; si aggiungevano truppe ausiliarie, quasi altrettante di numero; il nostro esercito era di ottanta coorti e di ottomila cavalieri. Mentre i nostri avanzavano nell’estremità della pianura, verso la posizione più sfavorevole, il nemico si trovava schierato in alto, cosicché il cammino da percorrere all’insù era assai pericoloso. Quando Cesare s’avvide di ciò, affinché per colpa o per avventatezza non si commettesse qualche grave imprudenza, fissò il luogo oltre il quale non dovevano avanzare. Quando l’ordine giunse all’orecchio degli uomini, questi l’accolsero di mal grado, pensando che ciò impediva loro di portare a termine il combattimento. Questo indugio rese più ardimentosi gli avversari, perché credettero che l’esercito di Cesare fosse impedito dal terrore a dar battaglia. Con baldanza essi si esponevano e davano l’occasione di battersi, mantenendosi però sul luogo a noi sfavorevole e in modo che l’accostarsi non fosse senza grande pericolo. La decima legione teneva il suo posto all’ala destra, all’ala sinistra v’erano la terza e la quinta legione e così le altre [truppe ausiliarie e cavalleria].»

CESARE, BELLUM HISPANICUM, 29,1 – 30,7

Lo scontro, avvenuto il 17 di marzo del 45 a.C. proprio a Munda, era sulla carta molto difficile per i cesariani. La battaglia si prolungò incerta per diverso tempo, finché l’intervento di Cesare in persona tra i ranghi della decima legio, la più fedele di Cesare, che lo aveva accompagnato fin dalla campagna gallica, portò i cesariani ad avanzare sul loro fianco destro. Pompeo spostò dunque una legione dal lato opposto, lasciandolo esposto al contrattacco della cavalleria maura di Cesare. Attaccati da entrambi i lati i pompeiani erano in grande difficoltà. Labieno, comandante della cavalleria di Pompeo, decise di intervenire indietreggiando, ma la manovra fu interpretata come una fuga dai pompeiani, che si disunirono e andarono in rotta.

«Levato il grido di guerra, si attaccò battaglia. Ivi, quantunque i nostri fossero superiori per valore, i nemici dalla posizione più elevata si difendevano con grande accanimento e il clamore diveniva sempre più alto dalle due parti e più violento lo scontro per il lancio dei dardi, tanto che i nostri quasi diffidavano della vittoria. Gli assalti e le grida, con cui soprattutto s’incute terrore ai nemici, erano di pari forza nella zuffa. Ed avendo posto nei due modi di combattimento un ugual valore, a mucchi caddero gli avversari, trafitti dal lancio dei dardi. Come abbiamo detto, i legionari della decima legione tenevano l’ala destra; quantunque fossero pochi, per il loro valore spargevano grande terrore tra gli avversari con la loro azione, perché dalla loro posizione premevano fortemente i nemici, tanto che questi cominciarono a trasferire in aiuto all’ala destra una legione, perché i nostri non li minacciassero di fianco. Ma appena questa legione si mosse, la cavalleria di Cesare cominciò a premere all’ala sinistra, costringendo gli avversari a combattere con valore ed accanimento, così da non dar loro la possibilità di accorrere in aiuto in altra parte del fronte. Così colpendo le orecchie il clamore misto ai gemiti e il fragore delle spade, le menti di coloro ch’erano inesperti erano percosse da terrore. Qui, come dice Ennio, «il piede preme contro il piede, le armi battono contro le armi». E i nostri cominciarono a respingere gli avversari, quantunque questi combattessero con grande veemenza; ad essi diede riparo la città. Così nel giorno stesso delle feste di Bacco, i nemici sbaragliati e messi in fuga non sarebbero sopravvissuti, se non si fossero rifugiati nel luogo donde erano usciti. In questo combattimento perirono circa trentamila avversari e forse anche di più; ed inoltre Labieno e Azio Varo, ai quali dopo la morte fu fatto il funerale, e così anche circa tremila cavalieri romani, parte di Roma, parte della provincia. Dei nostri perirono circa mille uomini, in parte cavalieri, in parte fanti; vi furono anche circa cinquecento feriti. Furono strappate ai nemici tredici aquile ed insegne.»

Cesare, bellum hispanicum, 31, 1-12

Vinta la Spagna e piegata ogni resistenza, Cesare si apprestava a tornare a Roma, dove sarebbe stato nominato dittatore a vita nel febbraio seguente.

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La battaglia di Munda
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