L’esercito della media repubblica era diviso in legioni, formate da manipoli di velites, hastati, principes e triarii, oltre a turmae di cavalieri romani. La divisione era data dal censo e dall’età, con i veliti, più giovani e poveri, che usavano perlopiù giavellotti, mentre hastati e principes formavano il grosso della legione di fanteria pesante, armati di pilum, gladio, corazza e scudo ovale. Dietro di loro i più anziani triari, e ai fianchi gli alleati e i cavalieri romani.

Gli hastati indossavano generalmente un pettorale di bronzo, principes e triarii una cotta di maglia. Secondo Polibio il discrimine per possederne una era di avere un patrimonio di 10.000 dracme (circa 10.000 denari), più di quanto un legionario di Augusto percepiva in tutta la sua carriera (225 denari annui, per venticinque anni).

I manipoli, composti di due centurie comandate ognuna da un centurione, formavano una sorta di scacchiera, con i reparti che si alternavano in battaglia quando erano affaticati.

L’intervento dei triari, che avevano manipoli grandi la metà, era considerato come atto estremo, solo se le cose volgevano al peggio (tanto da creare il detto “res reducta ad triarios“, quando le cose si mettevano veramente male); nel corso del tempo le migliori capacità tattiche romane (specialmente dopo gli scontri con Annibale) fecero sì che i triari venissero utilizzati anche per manovre avvolgenti.

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Mario il riformatore

«Mario si accorse che gli animi della plebe erano pieni di entusiasmo. Senza perdere tempo caricò le navi di armi, stipendio per i soldati e tutto ciò che era utile, ordinando a Manlio di imbarcarsi. Egli intanto, arruolava soldati, non come era nell’uso di quel periodo, per classi sociali, ma anzi accettando tutti i volontari, per la massima parte nullatenenti (capite censi).»

Gaio Sallustio Crispo, Bellum Iugurthinum, LXXXVI

Dopo l’elezione al consolato del 107 a.C., Gaio Mario, che aveva intenzione di porre fine alla Guerra Giugurtina, decise di arruolare anche i capite censi, ossia i proletari che non disponevano di proprietà, poiché il grosso dell’esercito precedentemente in Africa al comando di Metello era impegnato altrove, al comando dell’altro console Lucio Cassio Longino, per affrontare la minaccia dei germani che stavano migrando dal nord, in particolare i cimbri.

Contravvenendo all’organizzazione secolare dell’esercito romano, formato da contadini-soldato, Mario arruolò dunque chiunque, promettendo bottino e paga. Le armi e uno stipendio sarebbero stati forniti dalla repubblica (già Gaio Gracco, nel 123 a.C., aveva fatto approvare una lex militaris, in cui si sanciva che l’equipaggiamento doveva essere fornito dallo stato). L’episodio era già avvenuto prima, in situazioni d’emergenza, ma da allora divenne la norma.

La “riforma” era l’epilogo di una serie di avvenimenti che avevano visto i soldati romani distanti per molto tempo dalle loro terre nel corso del II secolo a.C., quando Roma si espanse in tutto il Mediterraneo. Già Tiberio Gracco e Gaio Gracco avevano provato a ridistribuire le terre ai contadini romani, togliendole ai latifondisti (che se appropriavano, favoriti dai lunghi periodi di lontananza), venendo fortemente ostacolati – e infine uccisi – dall’aristocrazia senatoria, che formava in larga parte i latifondisti che volevano colpire.

La soluzione di Mario risolveva in modo opposto il problema, sostanzialmente permettendo a chiunque di arruolarsi e di sostituire dei contadini-soldati che combattevano per difendere le loro proprietà e la res publica con dei soldati volontari professionisti, che combattevano per il soldo, il bottino e il loro comandante. E infatti proprio nel I secolo a.C. gli eserciti saranno reclutati da grandi figure senatorie e a loro legati, combattendo in numerose guerre civili, finché non uscirà vincitore Ottaviano.

L’esercito così riformato vedeva una ferma di sedici anni (estesa poi a vent’anni e sotto Augusto a venticinque, di cui gli ultimi cinque come veterani); al congedo si riceveva anche un’appezzamento di terreno, che permetteva – paradossalmente – proprio di trasformare in proprietari terrieri coloro i quali inizialmente non lo erano. I veterani venivano inoltre spesso insediati in blocco in un territorio, diventando anche da congedati “clienti” politici dei generali che li avevano arruolati.

Un tassello successivo fu la decisione di Mario, nel 101 a.C., dopo aver sconfitto cimbri e teutoni, di concedere la cittadinanza romana a tutti gli italici che avevano militato nelle sue legioni. Di lì a poco sarebbe scoppiata anche la guerra sociale, con gli italici che ottennero infine grazie alla Lex Iulia de civitate e la Lex Plautia Papiria la cittadinanza romana (a sud del Po, a nord ottennero con la Lex Pompeia la cittadinanza latina e solo sotto Augusto quella romana).

Il nuovo esercito mariano, tardo-repubblicano, era composto dunque di volontari, soldati professionisti, il cui equipaggiamento non era più personale, spesso tramandato di padre in figlio, ma fornito dallo stato o da chi arruolava le legioni. Ciò comportò il decadimento di ogni precedente distinzione tra hastati, principes e triarii, tutti equiparati tra loro, con la cotta di maglia, il pilum, il gladio e il grande scudo ovale.

Inoltre i veliti non furono più arruolati, sostituiti da truppe alleate, mentre i cavalieri erano raggruppati in alae, con gli alleati che comunque formavano il grosso delle forze a cavallo. Anche i manipoli vennero meno, non essendo più necessaria la distinzione precedente, e furono sostituiti dalle coorti, che già erano state sperimentate dai romani nel secolo precedente, a partire da Scipione.

Una coorte raggruppava in sé tre manipoli e dunque sei centurie (che invece sopravvissero), anche se ancora in età cesariana vengono nominati a livello tattico i manipoli. Idealmente la coorte raggruppava circa 5-600 uomini, e una legione ne contava dieci. Con la cavalleria, dunque, una legione della tarda repubblica, a pieno organico, contava circa 6.000 uomini (Cesare non usava rinforzare le legioni che avevano subito gravi perdite, tanto che a Farsalo ce n’erano molte che non contavano più di 2 o 3.000 uomini).

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La riforma dell’esercito di Gaio Mario
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