I primi contatti commerciali tra romani e britanni avvennero nel I secolo a.C., ma il primo a tentare l’invasione fu Cesare durante la guerra gallica. Nella tarda estate del 55 a.C. Cesare partì dunque per l’isola, più precisamente la notte tra il 25 e 26 agosto; lui stesso affermava di aver deciso di attaccare la Britannia per l’aiuto prestato ai galli, ma in realtà la motivazione fu principalmente economica (per via dello stagno e dei commerci) e di gloria personale. Il due settembre giunse vicino Walmer dove cercò informazioni, ma non ne trovò di utili. Cesare decise infine di sbarcare, nonostante le scarse informazioni, nella zona di Dover. Ma i romani si trovarono subito in grossa difficoltà, con i britanni che li attendevano sulla riva. I legionari erano titubanti, finché l’aquilifero della decima legione, prediletta di Cesare, si lanciò in acqua contro il nemico, gridando (De Bello Gallico, IV, 22, sgg.): “Desilite, commilitones, nisi vultis aquilam hostibus prodere: ego certe meum rei publicae atque imperatori officium praestitero” (“Compagni, saltate giù, se non volete lasciare l’aquila in mani ai nemici; io certamente farò il mio dovere sia verso la repubblica sia verso il nostro comandante”). I legionari allora, spronati dall’aquilifer, lo seguirono e riuscirono a ricacciare i britanni, che si dispersero.

«Fatte portare e radunate circa ottanta navi da carico, che riteneva sufficienti a trasportare due legioni, distribuì le restanti navi da guerra al questore, ai legati e ai prefetti. Rimanevano diciotto navi da carico, che erano trattenute dal vento contrario a otto miglia di distanza e non potevano approdare allo stesso porto: assegnò queste alla cavalleria. Affidò il resto dell’esercito ai legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta per condurlo nel paese dei Menapi e presso le tribù dei Morini che non avevano inviato ambasciatori; ordinò al legato Publio Sulpicio Rufo di occupare il porto con il presidio che ritenne sufficiente. Presi questi provvedimenti, approfittando del tempo adatto alla navigazione, salpò circa alla terza vigilia, dopo aver ordinato alla cavalleria di raggiungere per l’imbarco il porto successivo e seguirlo. L’ordine fu eseguito con una certa lentezza, mentre Cesare, all’ora quarta, toccò con le prime navi la Britannia, e lì, schierate sulle alture, vide le truppe nemiche in armi. La conformazione del luogo era tale e le rocce si levavano così a picco sul mare che i proiettili, scagliati dall’alto, potevano raggiungere il litorale. Ritenendo il luogo assolutamente inadatto allo sbarco, attese all’ancora, fino all’ora nona, che arrivassero le altre navi. Nel frattempo, convocati i legati e i tribuni dei soldati, comunicò le informazioni avute da Voluseno e il suo piano, e raccomandò di effettuare tutte le manovre rispondendo puntualmente al segnale, così come esige la tecnica militare, in particolare quella navale, che prevede movimenti rapidi e improvvise variazioni. Dopo averli congedati, col favore del vento e della marea, che si erano alzati contemporaneamente, dato il segnale e levate le ancore, avanzò per circa sette miglia fino ad un litorale aperto e pianeggiante dove mise le navi alla fonda. Ma i barbari, intuite le intenzioni dei Romani, mandano avanti i cavalieri e gli essedari, un reparto di cui prevalentemente si servono in battaglia, seguiti dal resto dell’esercito, ed impediscono ai nostri lo sbarco. Le difficoltà erano enormi: le navi, per le loro dimensioni, non si potevano ancorare che al largo, i soldati poi, senza conoscere i luoghi, con le mani occupate, appesantiti dalle armi, dovevano contemporaneamente saltar giù dalle navi, tenersi a galla e combattere con i nemici, mentre questi, all’asciutto o entrando appena in acqua, completamente liberi nei movimenti, su un terreno perfettamente conosciuto, lanciavano con audacia proiettili ed incalzavano con cavalli addestrati allo scopo. I nostri, sconcertati dalla situazione, posti di fronte a un genere di battaglia mai sperimentato, non si comportavano con lo stesso zelo e ardore che erano soliti dimostrare negli scontri di fanteria. Quando Cesare se ne accorse, ordinò che le navi da guerra, il cui aspetto era sconosciuto ai barbari ed erano più facilmente manovrabili, si staccassero un po’ dalle navi da carico e, a forza di remi, si portassero sul lato scoperto del nemico e di là, con fionde, archi e baliste lo investissero e lo costringessero alla ritirata. La manovra fu molto utile. I barbari, infatti, colpiti dalla forma delle navi, dal movimento dei remi e dal singolare aspetto delle macchine da guerra, si arrestarono e arretrarono leggermente. Ma, dato che i nostri soldati esitavano, per timore soprattutto delle acque profonde, l’aquilifero della x legione, invocati gli dèi affinché il suo gesto portasse fortuna alla legione, «Saltate giù», disse, «commilitoni, se non volete consegnare l’aquila al nemico; per conto mio, io avrò fatto il mio dovere verso la Repubblica e il generale». Gridate queste parole, saltò giù dalla nave e cominciò a portare l’aquila contro i nemici. Allora i nostri, esortandosi l’un l’altro a non tollerare un tale disonore, si gettarono tutti dalla nave. Quando dalle navi vicine li videro, anche gli altri soldati li seguirono ed avanzarono contro il nemico. Si combatté accanitamente da entrambe le parti. Tuttavia i nostri, non potendo mantenere lo schieramento né trovare un sicuro punto d’appoggio né porsi sotto le proprie insegne, poiché sbarcando chi da una nave chi da un’altra si aggregavano alla prima insegna che capitava, erano in una situazione di grande confusione. I nemici invece, conoscendo tutti i bassifondi, appena dalla spiaggia avvistavano gruppi isolati di soldati che toccavano terra, spronati i cavalli, li assalivano mentre si trovavano in difficoltà, circondandoli in massa, mentre altri, dal fianco scoperto, lanciavano frecce sul grosso dell’esercito. Cesare, appena se ne accorse, ordinò che si calassero in mare le scialuppe delle navi da guerra e i battelli da ricognizione carichi di soldati e li inviava in aiuto di quanti vedeva in difficoltà. I nostri, appena toccarono terra e furono raggiunti da tutti gli altri, caricarono il nemico e lo misero in fuga, ma non poterono protrarre l’inseguimento, perché le navi con la cavalleria non avevano potuto mantenere la rotta e raggiungere l’isola. Solo questo mancò alla consueta fortuna di Cesare.»

CESARE, DE BELLO GALLICO, IV, 22-26

I britanni si diedero alla fuga e subito chiesero la pace a Cesare, promettendo di consegnare anche ostaggi. Poco dopo giunsero le 18 navi che avevano imbarcato la cavalleria ed erano in ritardo, ma furono investite da una tempesta: alcune rientrarono in Gallia, altre vennero spinte lontano. Molte navi furono distrutte e Cesare si trovò in serio pericolo, rischiando di non poter tornare indietro prima dell’arrivo dell’inverno. I britanni, saputo delle difficoltà del nemico, decisero di rigettare la pace proposta e passare all’attacco, ma i romani riuscirono a reggere ancora una volta l’urto e ricacciarli. Nel frattempo Cesare aveva messo insieme, con uno sforzo enorme, le navi necessarie per il rientro. Stavolta i barbari accettarono la pace e il romano riuscì a far rientro con l’esercito in Gallia.

Dalla spedizione di Claudio al vallo di Antonino

Dopo una seconda spedizione l’anno successivo l’isola rimase fonte di disinteresse per Roma. Caligola pensò di fare una spedizione, forse, ma si fermò ancora prima di iniziare. Nel 40 d.C. aveva radunato diverse legioni ma i soldati si rifiutarono di attraversare il mare: l’isola era considerata qualcosa di estremamente distante e faceva paura.:

“Poi, mancando il pretesto per combattere, ordinò che alcuni Germani della sua guardia venissero portati oltre il Reno e lì restassero nascosti e che, dopo il pranzo, fosse annunciato col più grande scompiglio possibile che i nemici stavano sopraggiungendo. A quel falso annuncio, egli si spinse con alcuni amici e parte della cavalleria nel bosco più vicino, fece abbattere alberi e li fece addobbare a mo’ di trofei, poi fece ritorno a lume di fiaccole e accusò di ignavia e vigliaccheria quelli che non erano andati con lui, mentre ai suoi compagni che avevano partecipato a quella vittoria donò corone di nuovo genere e denominazione che, ornate con le immagini di sole, luna e stelle, furono da lui dette esploratone. Un’altra volta, dopo aver fatto uscire degli ostaggi da una scuola elementare e averli fatti procedere di nascosto, abbandonando all’improvviso la tavola, li inseguì con la cavalleria come se fossero dei fuggiaschi e, dopo averli catturati, li ricondusse in catene. Anche in questa sorta di commedia passò i limiti: tornato al convito, invitò gli ufficiali, venuti ad annunciargli che l’esercito era stato adunato, a prendere posto sui letti triclinarii, così come si trovavano, con tutta l’armatura indosso e li esortò, citando quel famosissimo verso di Virgilio, a «tener duro e riservarsi per tempi propizi». Infine, come se volesse porre fine alla guerra, schierato l’esercito lungo le spiagge dell’Oceano e disposte le baliste e le macchine senza che alcuno sapesse o potesse avere idea di cosa intendesse fare, improvvisamente ordinò di raccogliere conchiglie e riempirne gli elmi e i mantelli, dicendo: «Sono le spoglie dell’Oceano che spettano al Campidoglio e al Palazzo». Per lasciare un segno di questa vittoria, fece erigere un’altissima torre dalla quale, come da quella di Faro, di notte dovevano lampeggiare i fuochi per illuminare la rotta ai naviganti. Dopo aver annunciato ai soldati una ricompensa di cento denari ciascuno, come se avesse superato ogni altro esempio di generosità, disse: «Andate in letizia, andate in ricchezza».”

SVETONIO, CALIGOLA, 44-46

Fu suo zio Claudio qualche anno dopo a dare il via alla conquista. Già Augusto aveva pianificato delle invasioni, mai intraprese. Nel 43 d.C. l’imperatore Claudio trovò il pretesto per invadere l’isola: la reintegrazione al trono di Verica, re riconosciuto dai romani. Claudio, appena divenuto principe, cercava legittimazione militare per il suo titolo di imperatore; infatti si era sempre dedicato alle lettere, la filosofia e la politica (Claudio era un vero e proprio filologo: decise di introdurre nuove lettere nell’alfabeto latino per alcuni suoni). Decise pertanto di invadere l’isola della Britannia. Il comando delle operazioni fu affidato a Aulo Plauzio, primo governatore dell’isola, al comando di 4 legioni (II Augusta, IX Hispana, XIV Gemina, XX Valeria Victrix – la II Augusta era comandata dal futuro imperatore Vespasiano) e 20.000 ausiliari.

Le campagne romane durarono diversi anni e necessitarono di diversi imperatori, ma ciò non tolse la possibilità a Claudio di fregiarsi (nonostante l’isola non fosse pacificata) del titolo di Britannico, tanto da dare lo stesso nome al figlio (poi ucciso da Nerone). Inizialmente, sotto il principato di Claudio, il dominio romano era confinato al sud est dell’isola, ossia all’Inghilterra centrale e meridionale. La conquista fu rapida, ma molto più tempo chiese la pacificazione e l’organizzazione della provincia. La mattina dell’invasione si distinse anche Vespasiano, che sarebbe un giorno diventato imperatore, il quale lanciò un assalto alle posizioni nemiche attraversando il fiume Medway con la legio II Augusta che comandava. Lo scontro fu durissimo e si risolse solo il giorno seguente con la fuga del nemico. La conquista però era tutt’altro che certa, limitandosi i territori presi dai romani grossomodo all’attuale Inghilterra centro-meridionale. I romani stabilirono il loro centro principale a Camulodunum, nel sud-est dell’isola.

Boudicca

L’isola non era ancora pacificata che quando Nerone scelse Svetonio Paolino come governatore della Britannia la situazione precipitò: il senatore romano era famoso per la sua inflessibilità e abilità al comando e cercò subito di sottomettere le tribù ribelli. Quando nel 60 morì Prasutago, re degli iceni, i romani sfogarono la loro rabbia:

«Prasutago, re degli Iceni, illustre per una ricchezza d’antica data, aveva nominato suo erede Cesare e le proprie figlie, convinto che con questo atto d’omaggio il suo regno e la sua casa sarebbero stati al sicuro da ogni offesa. Invece avvenne il contrario: il regno fu depredato dai centurioni, la sua casa dagli schiavi, quasi fosse preda di guerra. Per prima cosa, sua moglie Budicca fu colpita con le verghe, le figlie stuprate; i notabili Iceni furono spogliati dei beni aviti, come se i Romani avessero ricevuto in dono l’intera regione e i parenti del re furono trattati come servi. Per queste offese e il timore di altre ancora più gravi, quando il paese fu ridotto a provincia, gli Iceni danno di piglio alle armi e incitano alla rivolta i Trinovanti e quanti altri, non ancora umiliati dall’esser tenuti come schiavi, con segrete congiure avevano progettato di riconquistare la libertà, mossi da odio inesorabile contro i veterani. Costoro infatti, trasferiti recentemente come coloni a Camulodunum, li scacciavano dalle loro case, li spogliavano dei campi, chiamandoli prigionieri e schiavi, mentre i soldati favorivano la prepotenza dei veterani, per analogia del costume e sperando di potersi permettere un giorno la stessa arroganza. Inoltre, era stato dedicato un tempio al divo Claudio, che da loro era visto come la rocca d’un dominio perpetuo, e i sacerdoti prescelti spendevano tutte le risorse locali sotto l’aspetto del culto. Né del resto sembrava difficile distruggere una colonia che non era difesa da alcuna fortificazione, poiché i nostri comandanti non avevano provveduto a farlo, intenti a procurarsi ciò che era piacevole prima che l’utile.»

TACITO, ANNALI, XIV, 31

Prasutago aveva scelto come eredi le due figlie, non avendo eredi maschi. Tuttavia la politica romana voleva che in tali casi i regni clienti venissero acquisiti alla res publica. Perciò Nerone decise di annettere il territorio degli iceni e i romani, dietro ordine del procuratore Catone Deciano, saccheggiarono il territorio degli iceni, che era passato alla moglie di Prasutago Boudicca essendo le figlie minori. Probabilmente alla base c’era anche una diffusa corruzione tra i funzionari provinciali che in occasioni come queste, fin dai tempi della repubblica, vedevano un’ottima occasione per arricchirsi. I romani non si limitarono tuttavia a questo, ma fustigarono Boudicca e la stuprarono in pubblico. La reazione fu una violenta rivolta, guidata dalla regina icena, che trovò l’aiuto dei vicini trinovanti. Radunò più di 10.000 uomini e marciò sulla capitale romana Camulodunum, distruggendola e massacrando la popolazione:

«Mentre avvenivano questi fatti, a Camulodunum la statua della Vittoria cadde all’indietro, come se incalzata dai nemici. Donne forsennate gridavano che era imminente una sciagura e che nel loro parlamento si era udito il mormorio di voci straniere, che nel teatro s’erano levate grida e nell’estuario del Tamigi era stata vista l’immagine della colonia distrutta; già l’Oceano era apparso del colore del sangue e al ritirarsi dei marosi erano rimaste le impronte di corpi umani, segni che incutevano speranze ai Britanni, terrore ai veterani. Ma Svetonio era assente; perciò essi chiesero aiuto al procuratore Deciano; il quale mandò non più di duecento uomini senza armi adeguate; e già era insufficiente la guarnigione locale. I soldati, fiduciosi nella protezione del tempio e impediti da quelli che, segretamente complici della rivolta, provocavano scompiglio nelle loro decisioni, non avevano predisposto né un terrapieno né un fosso e non avevano allontanato i vecchi e le donne, in modo che rimanessero soltanto i giovani; improvvidi, quasi fossero in piena pace, furono accerchiati da una moltitudine di barbari. Al primo assalto, furono devastate e date alle fiamme tutte le altre costruzioni; il tempio, nel quale s’erano rifugiati, dopo un assedio di due giorni fu espugnato. I Britanni vittoriosi mossero incontro a Petilio Ceriale, legato della nona legione, che accorreva per portare aiuto, sconfissero la legione e sterminarono tutto quel che c’era di fanteria. Ceriale con la cavalleria si rifugiò nell’accampamento e fu difeso dalle fortificazioni. Il procuratore Cato, spaventato per la sconfitta e per l’odio dei provinciali, che con la sua avidità aveva spinti alla guerra, si trasferì nella Gallia.»

TACITO, ANNALI, XIV, 32

In quel momento Paolino era distante, poiché si trovava sull’isola di Mona, in Galles, a combattere i druidi, e la Britannia meridionale era sguarnita: «La crudeltà più atroce inflitta dai Britanni ai Romani fu questa. Spogliarono le nobildonne della città e le legarono, poi tagliarono loro i seni e li cucirono alle loro bocche, in modo che sembrasse che li stessero mangiando. Poi impalarono le donne attraverso tutto il corpo.» (Cassio Dione, Storia romana, LXII, 7). La ribellione si propagò ulteriormente sull’onda della vittoria e i romani furono costretti a intervenire precipitosamente, ma alcune coorti della legio IX Hispana comandata da Quinto Petilio Ceriale vennero massacrate: si salvarono solo 500 cavalieri e il loro comandante, mentre i 2.000 legionari vennero massacrati e Catone Deciano fuggiva in Gallia.

Svetonio Paolino aveva appena conquistato Mona quando seppe della ribellione. Tornò immediatamente indietro e raggiunse Londinium, dove si accorse di non avere abbastanza uomini ed evacuò la città. Si mosse poi a Verulamium (St. Albans), portando anche lì in salvo la popolazione. Al comando dei profughi si ricongiunse al suo esercito che aveva preceduto e mise insieme le sue forze: richiamò i veterani della legio XX Valeria Victrix, reclutò tutti gli ausiliari e legionari disponibili, cui si aggiunsero i 3.000 superstiti della IX Hispana e l’intera legio XIV Gemina Martia Victrix; la situazione era talmente disperata che la legio II Augusta rifiutò di ricongiungersi a Svetonio. Quest’ultimo, con poco più di 10.000 uomini affrontò un esercito barbarico almeno 5 volte superiore a Waitling Street; aveva scelto accuratamente il luogo della battaglia, impervio e stretto tra i boschi, con i boschi alle spalle, per costringere i britanni molto più numerosi a infrangersi contro il muro romano.

« La gloria di quel giorno fu splendida, all’altezza delle vittorie di un tempo: alcuni storici parlano infatti di poco meno di ottantamila Britanni uccisi contro circa quattrocento dei nostri caduti e un numero poco superiore di feriti »

Tacito, Annali, XIV, 37

La tattica di Svetonio Paolino fu vincente e permise ai romani, grazie anche al suicidio di Boudicca, di riguadagnare il controllo dell’isola. Infatti la regina icena, vistasi sconfitta e poiché i carri bloccavano la via di fuga, decise di togliersi la vita. Secondo Cassio Dione invece la regina si sarebbe ammalata e morta di stenti di lì a poco. Boudicca sarebbe poi divenuta in epoca romantica, come molti altri barbari che si erano opposti a Roma (ad esempio Arminio e Vercingetorige) e specialmente vittoriana un’eroina nazionale, in questo caso britannica.

Agricola

Negli anni seguenti Ceriale, Frontino e Agricola portarono avanti altre campagne militari per pacificare il Galles e la parte settentrionale della Britannia, spingendosi fino alla Scozia meridionale. La Scozia (così come l’Irlanda) non venne mai annessa ma i suoi abitanti vennero pesantemente sconfitti ripetutamente. Giulio Agricola, suocero di Tacito, iniziò la carriera politica come tribuno militare sotto Nerone, in Britannia tra il 58 e 62, ai comandi di Svetonio Paolino. Rientrato a Roma divenne questore nel 64 e fu inviato in Asia; nel 66 tribuno della plebe, nel 68 pretore, per poi schierarsi dopo la morte di Galba col vincitore Vespasiano. Ottenne poi il comando della XX Valeria Victrix in Britannia, rimanendo poi sotto il comando di Quinto Petilio Ceriale; nel 75 fu governatore della Galiia Aquitania, per poi tornare a Roma nel 77 divenendo pontefice e dando sua figlia Giulia a Tacito.

Nel 78 tornò in Britannia come governatore, legatus Augusti pro praetore. Sembrerebbe che Agricola avesse anche fatto una breve spedizione in Ibernia (l’Irlanda) e costruito un piccolo forte (a Drumanargh), forse per pianificare una futura conquista, forse per regolare i commerci con la popolazione locale, forse per frenare eventuali incursioni marine verso la Britannia. Pare che il governatore romano andasse dicendo al suocero Tacito che gli sarebbe bastata una sola legione per conquistare l’isola e pacificarla. Continuando le sue campagne vittoriose, Agricola si spinse ancora più in profondità, perseverando la sua campagna verso nord e respingendo i barbari. Nel sesto anno del suo proconsolato, nell’83 a.C., riuscì infine a costringere i caledoni, fino ad allora sfuggenti, a venire a battaglia presso il Monte Graupio. Infatti Agricola era riuscito a tagliare loro i rifornimenti e l’unica alternativa sarebbe stata quella di morire di stenti. Celebre è discorso messo in bocca da Tacito al comandante caledone Calgaco, portatore di una forte critica verso l’imperialismo romano, ma al tempo stesso una implicita verso l’imperatore Domiziano, geloso dell’operato del suocero dello storico romano. Ma anche un manifesto verso l’integrità dei costumi dei barbari (così come nella Germania), che vivevano secondo natura e non si lasciavano condurre da continue lotte civili fratricide.

Nell’ 84 d.C., presso il monte Graupio, in Scozia, Agricola riuscì a venire a battaglia con i Caledoni comandati da Calgaco, dopo aver tagliato loro i rifornimenti. Celebre è il discorso messo in bocca al caledone da Tacito:

“Noi, che siamo al limite estremo del mondo e della libertà, siamo stati fino a oggi protetti dall’isolamento e dall’oscurità del nome. Ora, tuttavia, si aprono i confini ultimi della Britannia e l’ignoto è un fascino. Ma dopo di noi non ci sono più altre tribù, ma soltanto scogli e onde e un flagello ancora peggiore, i romani, contro la cui prepotenza non servono come difesa neppure la sottomissione e l’umiltà. Razziatori del mondo, adesso che la loro sete di universale saccheggio ha reso esausta la terra, vanno a cercare anche in mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l’oriente né l’occidente possono saziare. Loro bramano possedere con uguale smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero. Fanno il deserto, e lo chiamano pace.”

Tacito, Agricola, 30

L’ultima frase è rimasta nella storia come emblema della romanità: “ubi solitudinem faciunt, pacem appellant“, “dove fanno il deserto, lo chiamano pace”. A lungo si è dibattuto se questa fosse una critica di Tacito contro l’imperialismo romano e spesso è stata usata a pretesto per screditare la storia romana. Tacito probabilmente non aveva alcuna simpatia per queste tribù barbare, semplicemente riportava il loro punto di vista, ma era fermamente convinto nella superiorità romana. D’altro canto il dibattito sull’integrazione non è molto differente da quello fatto tra Arminio e il fratello Flavo sull’utilità e i vantaggi di essere romani, e che riporterà anche Flavio Giuseppe quando la Giudea si ribellerà a Roma nel 66 d.C. La battaglia del monte Graupio fu una grande vittoria per i romani, che tuttavia non annessero la Scozia poiché Domiziano richiamò a Roma, invidioso, Agricola.

Il vallo di Adriano e Antonino

Dopo l’abbandono della Mesopotamia, troppo instabile da mantenere nonostante i progetti di TraianoAdriano decise, complice un viaggio di ispezione in Britannia, di ordinare la costruzione di un muro che dividesse i territori romani da quelli barbarici. La costruzione ebbe inizio tra il 122 e il 128 d.C., ad opera del governatore della Britannia Aulo Platorio Nepote e venne completata in un decennio dalle legioni di stanza sull’isola. Il percorso del vallo comprendeva nella sua linea anche il famoso forte di Vindolanda.

Costruito in opera cementizia e rivestito di pietre squadrate, era largo mediamente 8 piedi romani (circa 2 metri e mezzo), mentre il bastione si ergeva per circa 5-6 metri e possedeva una merlatura e un camminamento di ronda. C’erano circa 320 torri di segnalazione e ogni miglio, appoggiati quasi sempre al bastione, fortini quadrangolari di circa 20 m x 20 m per le sentinelle che sorvegliavano tutto il perimetro del forte. A distanza di 4-5 miglia l’un l’altro c’erano dei veri e propri forti (castra stativa o stationes) di 1 o 2 ettari, addossati al muro o anche arretrati, dove stazionavano delle coorti e alae ausiliarie che pattugliavano il confine. A ulteriore protezione del muro, sul versante settentrionale, c’era un fossato con la tipa forma romana a V, largo mediamente 9 m e profondo 4 m.

Dal lato interno, c’era un ulteriore fossato protetto da un terrapieno sia frontalmente che posteriormente, distante circa 7 metri dal fossato (a sua volta a circa 60 metri dal muro) e alto mediamente circa 2 metri). Infine un terzo terrapieno, più stretto, ma più ripido, difendeva il lato più meridionale del fossato. Lungo tutto il muro correva una strada lastricata che permetteva lo spostamento rapido di truppe tanto lungo il limes quanto l’arrivo di rinforzi (legioni e ausiliari) dall’interno.

Il vallo, lungo 117 km (80 miglia romane) da Wallsend sul fiume Tyne alla costa del Solway Firth, è completamente in territorio inglese. Le vexillationes, coorti e ale di stanza sul vallo restarono in servizio fino alla riforma comitantese (quando sappiamo che di stanza c’era la legio pseudocomitatense Defensores Seniores, secondo la Notitia Dignitatum), all’inizio del V secolo d.C., nonostante un periodo di forte crisi ai tempi di Marco Aurelio e Settimio Severo, che infatti intraprese una spedizione a nord che non si concluse con la riunificazione dell’isola a causa della sua morte. Antonino Pio, attorno al 155, spinse la frontiera ancora più a nord e fece erigere un secondo vallo, più piccolo e perlopiù in legno e terra, che però fu abbandonato a più riprese e restaurato solo per poi venire nuovamente lasciato all’epoca di Settimio Severo.

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La conquista della Britannia
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