La testudo era una formazione usata dai romani specialmente durante gli assedi, permettendo agli attaccanti di ripararsi da frecce, dardi e oggetti vari. Raramente era usata sul campo di battaglia se non in casi di difesa estrema; uno dei casi più famosi è il tormentato ritorno di Marco Antonio dalla sua campagna partica: i romani, attaccati da ogni parte si disposero a testuggine ponendo anche gli scudi a terra per ripararsi dagli hippotoxotai, gli arcieri a cavallo partici. I quali, non avendo mai visto nulla di simile, scesero da cavallo credendo di dover finire dei nemici morenti. Invece i romani si rialzarono e li misero in fuga (Plutarco, Vita di Antonio, 45; Cassio Dione, Storia romana, XXXXIX, 29).

Allora i portatori di scudi si voltarono e rinchiusero le truppe armate leggere nei loro ranghi, si inginocchiarono e tesero gli scudi come una barriera difensiva. Gli uomini dietro di loro tenevano i loro scudi sopra le teste del primo rango, mentre il terzo rango fece lo stesso per il secondo rango. La forma risultante, che è uno spettacolo notevole, sembra molto simile a un tetto ed è la protezione più sicura contro le frecce, che vengono respinte.

Plutarco, Vita di Antonio, 45

I romani avevano già affrontato i parti, nel giugno del 53 a.C. a Carre, comandati da Crasso. Il comandante romano e triumviro, che intendeva aumentare il suo prestigio come Cesare in Gallia, si era infatti spinto nel deserto del nord della Mesopotamia, dove i parti rifiutavano lo scontro. Aveva evitato di seguire il corso del Tigri o dell’Eufrate credendo a dei finti disertori partici. Quando infine lo scontro avvenne, in pieno deserto, i parti cominciarono a bersagliare i romani da lontano, con gli arcieri a cavallo, riforniti da carri pieni di frecce. I legionari allora, inermi, furono costretti a rimanere immobili nel deserto facendo la testudo. Neanche la cavalleria gallica che Crasso aveva a disposizione poté fare nulla, mentre i legionari, costretti a rimanere immobili dietro gli scudi, venivano caricati dai catafratti quando non venivano colpiti dalle frecce. Sul campo trovò la morte sia Crasso sia il figlio Publio, al comando della cavalleria, mentre Cassio, il futuro cesaricida, si salvò trovando rifugio in Siria. Il comandante partico Surena avrebbe poi portato la testa di Crasso al re Orode II, che ne avrebbe fatto versare oro fuso al suo interno. Dopo questa battaglia Cicerone, che si trovava in Cilicia come governatore, respinse definitivamente le incursioni dei parti, con cui si scontrò poi Marco Antonio circa 15 anni dopo e che nel 17 a.C. strinsero la pace con Augusto, che ottenne la restituzione delle insegne. Sarà proprio Cicerone, dopo aver affrontato i parti, a scrivere ad Attico che “contra equitum parthum negant ullam armaturam inveniri posse” (Ad Familiares, 9, 25), ossia che bisognava inventare una nuova armatura per affrontare gli arcieri parti. Pochi decenni dopo farà il suo esordio la lorica segmentata, che i test moderni hanno dimostrato essere nettamente più resistente alle frecce dell’hamata usata a quel tempo.

L’equipaggiamento romano sarebbe stato dunque adattato nei secoli seguenti per rispondere alle esigenze di cariche combinate di cavalleria pesante e arcieri a cavallo. Il legionario dell’epoca di Traiano era armato con un elmo, una corazza (segmentata, hamata o squamata), lo scutum rettangolare, due pila e un gladio. A questi si aggiunsero gli schinieri tornati di moda per contrastare le falci daciche e vennero aggiunte delle maniche segmentate per lo stesso motivo. Anche gli elmi vennero rinforzati per resistere ai fendenti con una calotta a croce e delle tese e paranuche più ampie. La tattica della legione, distribuita su 10 coorti schierate in duplex o triplex acies (o due linee da 5 coorti o tre da 4, 3, 3 coorti), era di ingaggiare il nemico dopo il fuoco delle macchine come scorpioni e carroballiste (balliste montate su carri) e le raffiche di arcieri, frombolieri e ausiliari armati alla leggera. Il nemico già indebolito veniva caricato con il lancio dei pila a distanza ravvicinata, che erano stati rinforzati nell’ultimo secolo con una palla di piombo per aumentarne il danno. Il pilum generalmente trapassava lo scudo e se non lo faceva rendeva impossibile usarlo. Arrivati al corpo al corpo l’enorme esperienza e disciplina delle legioni, unita alla terribile efficacia del gladio, usato per pugnalare più che per menare fendenti, rendeva spesso la vittoria romana una mera questione di tempo.

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Un’organizzazione impeccabile

«Riguardo alla loro organizzazione militare, i romani hanno questo grande impero come premio del loro valore, non come dono della fortuna. Non è infatti la guerra che li inizia alle armi e neppure solo nel momento dei bisogno che essi la conducono […], al contrario vivono quasi fossero nati con le armi in mano, poiché non interrompono mai l’addestramento, né stanno ad attendere di essere attaccati. Le loro manovre si svolgono con un impegno pari ad un vero combattimento, tanto che ogni giorno tutti i soldati si esercitano con il massimo dell’ardore, come se fossero in guerra costantemente. Per questi motivi essi affrontano le battaglie con la massima calma; nessun panico li fa uscire dai ranghi, nessuna paura li vince, nessuna fatica li affligge, portandoli così, sempre, ad una vittoria sicura contro i nemici […]. Non si sbaglierebbe chi chiamasse le loro manovre, battaglie senza spargimento di sangue e le loro battaglie esercitazioni sanguinarie.»

GIUSEPPE FLAVIO, LA GUERRA GIUDAICA, III, 5.1.71-75

I romani si distinsero fin dai tempi della repubblica per le loro abilità d’assedio. Adottando macchine ossidionali greche come baliste e onagri, le adattarono, basandole tutte su un sistema di corde a torsione. Non solo eccellevano nell’utilizzo di macchine, ma avevano adottato nuove pratiche per prendere le mura, come la formazione a testuggine e l’uso di arieti e torri. Inoltre le abilità ingegneristiche romane consentivano loro di costruire ponti, cunicoli, palizzate e controvalli all’accorrenza, come nel caso di Alesia. Il culmine delle capacità ossidionali sarà raggiunto probabilmente nel I secolo d.C. con la presa di Gerusalemme e Masada, quest’ultima posizionata su un’altura apparentemente inespugnabile.

Questa testudo e il modo in cui si forma sono i seguenti. Gli animali da bagaglio, le truppe armate leggere e la cavalleria sono posti al centro dell’esercito. Le truppe armate pesantemente che utilizzano gli scudi oblunghi, ricurvi e cilindrici sono disposte intorno all’esterno, formando una figura rettangolare, e, rivolte verso l’esterno e tenendo le braccia pronte, racchiudono il resto. Gli altri che hanno scudi piatti, formano un corpo compatto al centro e alzano gli scudi sopra le teste di tutti gli altri in modo che non si veda altro che scudi in ogni parte della falange allo stesso modo e tutti gli uomini per la densità della formazione sono al riparo dai missili. In effetti, è così meravigliosamente forte che gli uomini possono camminarci sopra e ogni volta che arrivano in uno stretto burrone, perfino cavalli e veicoli possono essere guidati al di sopra.

Cassio Dione, Storia romana, XXXXIX, 29

La testuggine nella Guerra Giudaica

Durante la guerra giudaica la testuggine fu usata più volte, come nel caso dell’assedio di Iotapata e Gerusalemme. Poco dopo lo scoppio della rivolta giudaica, nel 67, Vespasiano assediò la quasi inespugnabile fortezza di Iotapata, dove si era rinchiuso Giuseppe, divenuto poi Flavio. I romani costruirono un terrapieno e tormentarono con ben 160 macchine d’assedio (per questo chiamate tormenta) i difensori:

«La violenza delle baliste e delle catapulte abbatteva molti uomini con lo stesso colpo, e i proiettili si-bilanti scagliati dall’ordigno sfondavano i parapetti e scheggiavano gli spigoli delle torri. Non v’è schiera di combattenti così salda che non possa essere travolta fino all’ultima riga dalla violenza e dalla grossezza di tali proiettili. Si potrebbe avere un’idea della potenza dell’ordigno da ciò che accadde quella notte; infatti ad uno degli uomini che stavano sul muro attorno a Giuseppe un colpo staccò la testa facendola cadere lontano tre stadi. Sul far del giorno una donna incinta, appena uscita di casa, venne colpita al ventre e il suo piccolo venne proiettato a distanza di mezzo stadio: tale era la forza della balista. Più pauroso degli ordigni era il rombo, più spaventoso dei proiettili il fragore. C’era poi il tonfo dei morti che cadevano dalle mura l’uno sull’altro, e dall’interno si levava straziante il grido delle donne, cui facevano eco all’esterno i gemiti dei morenti. Tutto il settore del muro dinanzi al quale si combatteva era inzuppato di sangue, e lo si poteva scavalcare dando la scalata ai cadaveri. L’eco dei monti rendeva più pauroso il clamore, e in quella notte nulla mancò per atterrire nè l’udito né la vista. Moltissimi caddero valorosamente fra quelli che si battevano per Iotapata, moltissimi furono anche i feriti, e infine verso l’ora del cambio della guardia al mattino il muro, battuto in continuazione, cedette alle macchine. Quelli ostruirono la breccia con i loro corpi e con le armi, e continuarono a far resistenza prima che i romani potessero sistemare i ponti per dare la scalata. Verso l’alba Vespasiano, dopo aver concesso all’esercito un breve riposo dalle fatiche della notte, lo radunò per sferrare l’assalto alla città.»  

GIUSEPPE FLAVIO, LA GUERRA GIUDAICA, III, 7.22, 243-253 – 7, 24

Infine i romani apriranno una breccia nelle mura e le assalteranno da più parti con le scale, incontrando una strenua resistenza. Infatti i difensori continuavano a cercare di rispingere i romani con ogni mezzo: olio bollente, lancio di oggetti, pietre. I romani furono costretti a formare la testuggine, per poi combattere con più vigore avendo dei ricambi che invece i giudei non avevano. L’olio bollente ebbe tuttavia particolare effetto contro i romani, ma quest’ultimi non demorsero e continuarono a combattere senza sosta. Sarà Tito, seguendo le indicazioni di un disertore, a guidare una incursione notturna che permise alle legioni di penetrare in città. I romani, provati dai duri scontri, si daranno a un massacro, mentre Giuseppe, nascosto in una grotta, si salverà dal suicidio collettivo con l’inganno, dandosi poi a Vespasiano cui avrebbe predetto l’impero, ricevendo poi da lui la cittadinanza e il nome di Flavio. Grazie alla sua sopravvivenza conosciamo molti degli eventi bellici della guerra.

Altri usi

La testuggine appare anche nella Colonna Traiana, sempre durante gli assedi: i romani si avvicinano alle mura daciche con la famosa formazione, che li protegge dai dardi in arrivo. Certamente questa formazione rimase in uso anche nei secoli seguenti, seppure lo scutum divenne via via più tondo e piatto; basandosi su questa formazione prese sempre più piede il fulcrum, una sorta di muro di scudi statica, con le lance rivolte verso l’esterno come un’istrice. Tale schieramento garantiva la protezione combinata da frecce e cavalieri, situazione che i romani avevano tanto sofferto a Carre e in generale contro i parti. Bisogna infatti vedere anche in quest’ottica l’utilizzo sempre più preponderante di lance dal III secolo d.C. e l’uso di scudi lievemente più piccoli: non più grandi battaglie campali e grandi assedi, o perlomeno sempre meno, ma una forza flessibile e pronta a rispondere a qualsiasi tipo di minaccia.

Le difficoltà sempre maggiori dell’impero romano, monetarie, demografiche, politiche e militari, vedevano il progressivo venir meno dell’alta specializzazione del II secolo d.C. e il delicato sistema di truppe leggere, arcieri, frombolieri e macchine d’assedio per proteggere la fanteria dall’uso combinato di arcieri a cavallo e cavalleria pesante, per favorire una maggiore flessibilità della fanteria pesante legionaria, armata con lance, piccoli dardi come plumbatae, scudi più adatti nell’uno contro uno e in generale anche contro imboscate, così come spade più lunghe, supportata da forze ausiliarie ancora più disparate e variegate che in passato; anche i romani stessi cominciarono a fare largo uso di forze di cavalleria leggera (già visibili nella Colonna Traiana sotto forma di cavalieri mauri), arcieri a cavallo e cavalleria pesante: insomma l’esercito tardoantico invece di supportare in ogni modo possibile la fanteria pesante legionaria colmando le sue lacune, come fatto nel I e II secolo d.C., finisce per adattarsi al nemico e variegare enormemente le sue tattiche ed equipaggiamenti, in modo da risultare sempre in grado di rispondere in modo adeguato, anche in situazioni di crisi o poco chiare, quando magari la catena di comando non funziona bene, cosa che accade molto spesso nel secolo dell’Anarchia Militare (235-284).

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La formazione romana a Testudo
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